Le emozioni: parte prima
"Le emozioni: competenze senza comprensioni, ma ci permettono di adattarci al nostro mondo interno ed esterno"
Giorgio Nardone
In questo momento difficile che ognuno di noi sta vivendo emergono dentro di noi mille pensieri e paure spesso difficili da affrontare da soli e proprio per questo motivo vorrei mettere a disposizione di tutti un corso tenuto da me un po' di anni fa sulle emozioni per cercare di mettere a disposizione di tutti e gratuitamente un po' delle mie competenze professionali.
Questa sezione si articolerà in lezioni che troverete qui accessibili a tutti.
Se potete condividete con i vostri amici e chiedete anche a loro di condividere per poter dare questa opportunità al maggior numero di persone possibili.
Cercherò di usare una terminologia facile in modo che il corso sia facilmente comprensibile a tutti e non richiedere delle specifiche conoscenze tecniche. In alcune parti teoriche forse sarà più complesso, ma le teorie sono così, non si possono cambiare. Ma non demoralizzatevi, cercherò di fare molti esempi pratici, in modo da poter comprendere meglio il tutto.
Per chi volesse approfondire mi può contattare.
1°lezione
Partiamo da una parte teorica che comprenderà parecchie lezioni.
Ovviamente non tratterò tutte le teorie sull'argomento, ma le principali.
La parte teorica è fondamentale per avere poi le basi per poter capirle, affrontarle, accettarle e "usarle al meglio".
Cosa sono le emozioni?
L'emozione, specialmente se intensa, può provocare alterazioni somatiche diffuse: il sistema nervoso centrale influenza le reazioni mimiche (l'espressione del viso) e la tensione muscolare; il sistema vegetativo e le ghiandole endocrine influenzano la secrezione di adrenalina, l'accelerazione del ritmo cardiaco e altre risposte viscerali.
Diverse scuole di pensiero, soprattutto agli inizi della storia della psicologia, considerano le emozioni come fattori di disturbo, come se la cosiddetta "scarica emotiva" o un'emozione dirompente potesse essere un elemento di disturbo.
Questo può essere vero per determinate azioni del comportamento, pensiamo alla guida dell'auto in condizioni di rischio, se la persona si abbandona a scariche emotive questo potrebbe essere di intralcio per una presa di decisione tempestiva.
Ma ciò non è vero per altre sfere del comportamento, in quanto il saper entrare in contatto e il saper riconoscere le proprie emozioni ha una sua funzionalità auto ed etero regolatrice.
Il primo studioso in senso storico delle emozioni è stato Darwin, il quale evidenzia come le funzioni delle emozioni abbiamo a che fare con la sopravvivenza. L'aver paura o il fatto di poter esprimere e comunicare la rabbia serve all'animale e all'uomo per poter sopravvivere nell'ambiente. Se non si avvertissero i segnali della paura si soccomberebbe alle minacce ambientali perché non si sarebbe in grado di reagire, per es. mettendo in atto un comportamento di fuga. Questo concetto è stato ripreso da altri Autori e non è mai stato sconfermato. Questa è considerata, quindi, una delle funzioni primarie delle emozioni.
In questo senso anche l'espressione facciale delle emozioni è universale ed è presente anche nei primati.
James e Lange nel 1984 propongono la teoria psicofisiologica dell'emozione dove si afferma che le risposte espressivo-motorie determinano gli elementi valutativi-cognitivi, cioè il processo fisiologico anticipa l'etichettamento cognitivo (es. non scappo perché ho paura, ma ho paura perché scappo; non si piange perché si è tristi, ma l'azione del piangere determina l'esperienza e la valutazione della tristezza; il tremare e il gridare causano rispettivamente l'esperienza della paura e della rabbia).
Quindi secondo questa teoria prima si inizia a correre e dopo, attraverso tutte le informazioni motorie e propriocettive che provengono dall'azione di fuga, si arriva al riconoscimento dell'emozione della paura.
Questa teoria è stata fortemente criticata e tra i critici troviamo Cannon e Bard, due autori di stampo cognitivo che hanno affermato che i cambiamenti delle risposte fisiologiche sono troppo lenti per essere considerati come causa di vissuti emozionali e che l'induzione artificiale mediante sostanze chimiche di risposte fisiologiche tipiche di emozioni estreme, non produce l'esperienza di quelle stesse emozioni.
Quindi vi è una contemporanea e simultanea attivazione sia delle risposte espressivo-motorie che delle relative rappresentazioni mentali, poiché entrambe dipendono dall'attivazione di determinate aree cerebrali (del talamo). Essi infatti attribuiscono significato allo stimolo dimostrando, tramite degli esperimenti, che i soggetti di fronte a stimoli ambigui, che potevano essere più o meno minacciosi, non scappavano ma iniziavano a correre solo di fronte a stimoli precisamente minacciosi.
Quindi sostengono che la teoria di James e Lange potrebbe essere vera in presenza di strutture cerebrali primitive, animali con sistemi cerebrali semplificati rispetto a quello umano o nei bambini molto piccoli che reagiscono allo stimolo con l'attivazione del sistema di arousal senza riuscire però a connotare realmente lo stimolo, per cui iniziano a correre.
Gli adulti, al contrario, avendo un sistema cognitivo e delle componenti semantiche fortemente organizzate, attribuiscono un significato cognitivo allo stimolo attribuendolo a delle categorie primarie (piacevole - spiacevole, amico - nemico) e a seguito di ciò provano un'emozione.
Negli ultimi anni si è andata sviluppando il concetto di "intelligenza emotiva", recentemente riproposto da Goleman, che riprende il concetto di "intelligenza multicomponenziale" di Gardner, e sottolinea l'esistenza tra i fattori che costituiscono l'intelligenza umana di un'abilità emotiva che permetterebbe alle persone di sapersi muovere con successo. Si tratta di un tipo di intelligenza che evidenzia le abilità sociali della persona e si costruisce su diverse forme di regolazione delle emozioni.
Gli ambiti in cui questa abilità emotiva si sviluppano riguardano:
- la conoscenza delle proprie emozioni
- la consapevolezza del proprio vissuto emotivo
- il sapersi osservare
- il controllo e regolazione delle proprie emozioni, cioè imparare a non essere dominati dalle emozioni
- il riconoscimento delle emozioni altrui
- la capacità di sapersi motivare
- la gestione delle relazioni sociali fra individui e nel gruppo
A domani per la continuazione della parte teorica.
2°lezione
Sempre nell'ambito dello studio delle emozioni i tre modelli attualmente più rappresentativi sono quello costruttivistico, quello interazionista e quello psicodinamico.
- Il primo deriva dall'approccio cognitivo ed evidenzia come la realtà in cui noi viviamo altro non è che una rappresentazione, una nostra costruzione mentale.
In relazione alle emozioni esistono delle credenze che vengono attivate (per es. l'ansia, per gli Autori che fanno riferimento a questo modello, sarebbe un'autoproduzione, cioè se io provo ansia in una data situazione è perché ho generato questo tipo di situazione sia come antecedente che come tipo di vissuto).
Al modello costruttivista fanno riferimento molti Autori, tra i quali Ricci Bitti, Ekman.
- Secondo Ricci Bitti le emozioni seguono un processo regolatorio, cioè hanno funzioni identificabili all'interno di un processo di regolazione auto ed etero regolabile.
Lui fa una classificazione delle diverse forme di controllo delle emozioni, alcune di queste sono: il controllo cognitivo, che comprende il grado di novità di uno stimolo, alla valutazione del grado di piacevolezza-spiacevolezza dello stimolo, fino alla valutazione se uno specifico stimolo favorisce o impedisce il raggiungimento di uno scopo.
Ricci Bitti, inoltre, specifica che per controllo dell'espressione delle emozioni, non si intende repressione o inibizione delle emozioni, ma, si riferisce alla capacità di dare un significato alle emozioni e alla possibilità di arricchire l'esperienza emozionale con un maggiore collegamento tra espressione emotiva e vissuto soggettivo.
Uno studioso che si è occupato della classificazione delle emozioni nonché delle tecniche di comunicazione delle emozioni è Ekman. Egli, tra l'altro, era un attore di professione e quindi è stato facilitato nel farsi scattare delle fotografie mentre faceva delle espressioni che davano l'idea di una particolare emozione.
Quello che lui ha studiato è la funzione e l'azione di determinati muscoli facciali nell'esprimere le emozioni, per es. per rendere l'espressione facciale della rabbia bisogna abbassare le sopracciglia, arricciare il naso, stringere le labbra, per la gioia spalancare gli occhi, alzare gli angoli della bocca, abbassare le sopracciglia.
Un altro risultato importante a cui perviene è che mostrando queste fotografie a persone appartenenti a culture molto diverse tra di loro, per es. a occidentali, ad asiatici, a culture primitive come gli abitanti della Papuasia, le emozioni principali, quelle primarie, vengono pressoché universalmente espresse e codificate nello stesso modo.
Ha sviluppato una teoria neuroculturale delle espressioni facciali in cui prende in considerazione sia gli aspetti naturali che culturali, questi ultimi sono rappresentati dalle regole espressive, dette di esibizione, prodotto dall'interazione dell'individuo e il suo ambiente socioculturale, e dalle circostanze attivanti una deteminata emozione.
Questo psicologo americano nel 2008 racconta di essere stato in un remoto villaggio sulle alture della Papua Nuova Guinea per studiare gli abitati del posto e verificare se fosse possibile riscontrare anche tra loro le stesse emozioni provate da altri popoli. Gli indigeni, i Fore, popolo pre-letterario, alla vista di Ekman che mangiava del cibo a loro sconosciuto rimasero stupiti e in particolare uno di loro rimase a guardare Ekman con una particolare espressione. Lo studioso entusiasta della loro reazione, fotografò l'espressione di disgusto evidenziata sul volto di questo membro della tribù e scrisse: "La fotografia illustra che l'uomo è disgustato dalla vista e dall'odore del cibo che io consideravo appetitoso" (p. 177). Questo è solo uno dei tanti esempi riferiti dallo scienzato.
Fu proprio seguendo questa Tribù che Ekman poté notare come le espressioni di base fossero universali perché riscontrabili in popolazioni diverse, anche in quella dei Fore che è isolata dal resto del mondo. Così decise di stilare una lista di emozioni divise in primarie e secondarie.
Le emozioni primarie o di base sono:
1. rabbia, generata dalla frustrazione che si può manifestare attraverso l'aggressività;
2. paura, emozione dominata dall'istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una situazione pericolosa;
3. tristezza, si origina a seguito di una perdita o da uno scopo non raggiunto;
4. gioia, stato d'animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri;
5. sorpresa, si origina da un evento inaspettato, seguito da paura o gioia;
6. disprezzo, sentimento e atteggiamento di totale mancanza di stima e disdegnato rifiuto verso persone o cose, considerate prive di dignità morale o intellettuale;
7. disgusto, risposta repulsiva caratterizzata da un'espressione facciale specifica.
Queste sono emozioni innate e sono riscontrabili in qualsiasi popolazione, per questo sono definite primarie ovvero universali.
Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell'individuo e con l'interazione sociale, sono delle emozioni più complesse e hanno bisogno di più elementi esterni o pensieri eterogenei per essere attivate Esse sono:
· allegria, sentimento di piena e viva soddisfazione dell'animo;
· invidia, stato emozionale in cui un soggetto sente un forte desiderio di avere ciò che l'altro possiede;
· vergogna, reazione emotiva che si prova in conseguenza alla trasgressione di regole sociali;
· ansia, reazione emotiva dovuta al prefigurarsi di un pericolo ipotetico, futuro e distante;
· rassegnazione, disposizione d'animo di chi accetta pazientemente un dolore, una sfortuna;
· gelosia, stato emotivo che deriva dalla paura di perdere qualcosa che appartiene già al soggetto;
· speranza, tendenza a ritenere che fenomeni o eventi siano gestibili e controllabili e quindi indirizzabili verso esiti sperati come migliori;
· perdono, sostituzione delle emozioni negative che seguono un'offesa percepita (es. rabbia, paura) con delle emozioni positive (es. empatia, compassione);
· offesa, danno morale che si arreca a una persona con atti o con parole;
· nostalgia, stato di malessere causato da un acuto desiderio di un luogo lontano, di una cosa o di una persona assente o perduta, di una situazione finita che si vorrebbe rivivere;
· rimorso, stato di pena o turbamento psicologico sperimentato da chi ritiene di aver tenuto comportamenti o azioni contrari al proprio codice morale;
· delusione, stato d'animo di tristezza provocato dalla constatazione che le aspettative, le speranze coltivate non hanno riscontro nella realtà.
2. Il modello interazionista evidenzia che non si può parlare di emozioni o sistemi emozionali senza considerare le interazioni che questi sistemi hanno con i sistemi motivazionali, cioè quelle che sono le esigenze dell'individuo (la tristezza spesso è una conseguenza di forti frustrazioni di aspettative).
3. Per il modello psicodinamico l'emozione ha una funzione centrale, nel senso che i vissuti emotivi e l'analisi di tali vissuti sono poi la chiave per arrivare all'inconscio, permettendo anche il passaggio ad evoluzioni più mature della personalità.
In riferimento alla parte applicativa, in ambito psicodinamico troviamo il concetto di meccanismi di difesa dell'Io, che altro non sono che meccanismi di difesa dall'ansia e dal dolore, cioè dal provare emozioni negative, fino ad arrivare all'opposto della possibilità di gestire l'emozione, il cosiddetto acting - out che è un meccanismo di difesa estremo quando l'emozione è incontenibile. Il concetto psicodinamico della cura è poter provare le emozioni al di là di un agito.
4.
Per l'approccio cognitivo-comportamentale l'emozione
rappresenta un comportamento di risposta profondamente legato alle motivazioni,
che si manifesta a tre diversi livelli:
psicologico
comportamentale
fisiologico
Comunemente si pensa di dedurre le motivazioni dal comportamento; in realtà lo stesso comportamento può essere causato da motivazioni diverse.
Uno studente può passare tre ore a studiare per interesse per la materia, per compiacere un genitore o per primeggiare sui compagni e sentirsi importante.
Ci sono infatti vari tipi di disaccordo tra attività e obiettivo:
lo stesso obiettivo può essere raggiunto con diversi comportamenti
differenti obiettivi possono essere raggiunti con lo stesso comportamento
un comportamento può essere strumentale al raggiungimento di differenti obiettivi
Per meglio definire le motivazioni profonde del comportamento umano sono state sviluppate molte teorie, citiamo le più importanti:
1. la teoria psicoanalitica di Freud: le pulsioni fondamentali sono il sesso e l'aggressività.
2. la teoria comportamentistica sottolinea l'importanza della relazione stimolo-risposta e dell'apprendimento nello sviluppo del comportamento.
3. la teoria cognitiva può essere definita come la teoria della scelta preferenziale; cioè la decisione di impegnarsi in una certa attività piuttosto che in altre ed il grado di partecipazione si determinano sulla base di considerazioni di carattere cognitivo.
Un altro studioso delle emozioni è ABRAHAM MASLOW che 1954 sviluppa un approccio che prevede diversi livelli di sviluppo nei sistemi motivazionali, cognitivi ed emotivi che danno vita al comportamento umano. I bisogni umani possono essere organizzati in 5 gruppi a seconda della loro primarietà e della loro distanza dalle esigenze biologiche dell'organismo: i bisogni appartenenti a un gruppo superiore richiedono sempre l'esistenza di quelli propri dei livelli inferiori
6°gruppo:
- BISOGNO DI TRASCENDENZA: la capacità di vivere in pieno la propria vita
- BISOGNI DEL SE': sentirsi realizzati per tutto quanto si fa o si è fatto e si può sentire il bisogno di andare oltre
- BISOGNI DI AUTOREALIZZAZIONE: essere sè stessi sentendosi parte di un insieme più vasto quasi cosmico o divino
5°gruppo:
- BISOGNO DI REALIZZAZIONE DI SE': in virtù del quale le capacità potenziali di ciascuna propria esperienza soggettiva della persona trovano la loro più piena applicazione e il massimo punto di crescita prevedendo una capacità di rappresentazione astratta, simbolica e dall'uso di un codice linguistico
4° gruppo:
- BISOGNI DI RICONOSCIMENTO E DI RENDIMENTO: consistono nell'esigenza di veder riconosciuti i propri meriti in relazione al proprio ruolo, di essere competenti e produttivi
- BISOGNI SOCIALI
3° gruppo:
- BISOGNI BISOGNI DI APPARTENENZA E DI AMORE: consistono nell'esigenza di sentirsi parte di un gruppo, implicano una vita sociale e un cooperare con i suoi membri, di dare e ricevere amore e di un rapporto interattivo con gli altri
2° gruppo:
- BISOGNI DI SICUREZZA: portano alla ricerca di figure parentali che sono in grado di assicurare al bambino la dovuta protezione e inducono a evitare l'ingestione di cibi o bevande dannose
- BISOGNI PRIMARI
1°gruppo:
- BISOGNI FISIOLOGICI: dipendono da pulsioni fisiologiche (es. bisogno di cibo, di ossigeno, di assumere liquidi, di dormire legati all'organismo biologico)
A domani per la continuazione della parte teorica.
3°lezione
L'emozione si realizza all'interno della complessa relazione tra l'individuo e l'ambiente.
L'emozione può essere definita come quella complessa catena di eventi (sensazione soggettiva - comportamento - variazioni fisiologiche)che si succedono tra la comparsa dello stimolo scatenante (INPUT) legato alle motivazioni profonde e l'esecuzione del comportamento rispondente (OUTPUT).
Meglio considerarla come indotta da una specifica condizione stimolo.
Robert Plutchik (1980), considera le emozioni come risposta adattiva quindi come elementi riflessi dell'adattamento: per lui "l'emozione è "una complessa catena d'eventi".
Gli anelli di questa catena sono:
- La valutazione cognitiva dello stimolo
- L' esperienza soggettiva
- L'eccitazione fisiologica
- L'impulso all'azione
- Un comportamento manifesto
Plutchik è partito da considerazioni di natura evolutiva affermando che le emozioni primarie sono biologicamente primitive e si sono evolute in modo da consentire alle specie di sopravvivere.Ognuna delle emozioni primarie agisce come interruttore per un comportamento con un alto valore di sopravvivenza (es. paura: fight-or-flight response).
Egli ipotizza che ci siano 4 coppie di emozioni di base primarie:
- gioia - tristezza
- fiducia - disgusto
- rabbia - paura
- sorpresa - anticipazione
Plutchik (1970, 1980) ha suggerito un modello efficace (parzialmente verificato sul piano empirico per la classificazione delle espressioni facciali). Tre sono le fondamentali dimensioni rappresentate in questo modello: intensità, polarità e somiglianza.
Il modello sembra essere in grado di spiegare la maggior parte delle emozioni umane, ciascuna delle quali può essere considerata come una combinazione di queste emozioni primarie.La ruota delle emozioni da lui creata evidenzia le polarità e l'intensità, via via decrescente delle emozioni, più i vari stati intermedi (decrescendo di intensità le emozioni si mescolano sempre più facilmente.
Quindi come evidenziato dal cono emotivo le varie combinazioni di emozioni daranno vita ad emozioni composte più complesse: le DIADI EMOTIVE.
Come già evidenziato le emozioni creano delle reazioni corporee di tipo vegetativo e sensorio, nell'immagine che segue vengono evidenziate le aree del corpo nelle quali le emozioni generalmente vengono sentite.
Osservando questa
immagine si può provare ad entrare in contatto attraverso le sensazioni
corporee con emozioni che magari ancora non abbiamo ben identificato.
4°lezione
Tre sono i diversi livelli o sistemi di risposta
attraverso i quali si manifesta l'emozione:
Il primo sistema, detto psicologico, comprende i resoconti verbali relativi all'esperienza soggettiva, come ad esempio: "ho provato una intensa sensazione di rabbia quando ......".
Il secondo sistema, denominato comportamentale, riguarda invece le manifestazioni motorie dell'emozione, come ad esempio il comportamento di evitamento, di avvicinamento, di attacco e la fuga ecc., e le modificazioni dell'atteggiamento posturale e dell'espressione facciale.
Infine, vi è il livello fisiologico, prevalentemente rappresentato delle modificazioni fisiche: ad esempio negli effettori innervati dal sistema nervoso autonomo, quindi alterazioni della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, dell'irrorazione vascolare facciale (l'arrossire), l'aumento della sudorazione delle mani, o le modificazioni del ritmo respiratorio. Tutte queste variazioni sono connesse con, e anche indotte da, modificazioni di tipo endocrino, per esempio del sistema ipofisi-corticosurrenale (ACTH e cortisolo) o della midollare del surrene (adrenalina e noradrenalina).
Nessuno di questi tre sistemi
(psicologico, comportamentale e fisiologico) è prioritario rispetto agli altri,
ma piuttosto ognuno risulta strettamente connesso agli altri in una globale
risposta emozionale. I tre sistemi cioè interagiscono tra loro pur essendo
parzialmente indipendenti.
Concludendo, l'emozione risulta essere un "insieme di risposte".
Quante e quali sono le emozioni?
Le emozioni primarie sono emozioni innate e sono riscontrabili in qualsiasi popolazione, per questo sono definite primarie ovvero universali.
Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell'individuo e con l'interazione sociale.
Costantemente proviamo tante emozioni, una vasta gamma, che varia da quelle positive a quelle negative. Fondamentalmente, cos'è un'emozione, di cosa si tratta? Proviamo, dunque, a fare un viaggio in questo mondo, esplorando più da vicino queste sconosciute che ci accompagnano per tutta la giornata ... e nella vita.
L'emozione consiste in una serie di modificazioni che avvengono nel nostro corpo sia a livello fisiologico, alterazioni respiratorie e cardiache, sia di pensieri, ad esempio: "... che paura..." o "... non c'è speranza...", sia reazioni comportamentali, come il fuggire o gridare o alterazioni della mimica facciale, che il soggetto utilizza in risposta a un evento.
Sicuramente, se domani dovesse esserci una interrogazione da affrontare o un compito scritto, un verifica insomma, potrei provare ansia, paura, dovuta al fatto che non so bene come potrebbe andare, di non aver studiato abbastanza, di non sapere esattamente quali domande saranno affrontate e quali potrebbero essere i risultati ottenuti. In questo caso, si possono avvertire una serie di modificazioni a carico del fisico, come le farfalle allo stomaco, la secchezza delle fauci, mal di testa, respiro affannoso e così via. Si tratta di indicatori riguardanti stato di incertezza che si sta affrontando, perché le aspettative che si hanno sono distanti dalla realtà.
TOMKINS: Propone 8 emozioni fondamentali 3 positive-piacevoli (interesse, sorpresa, gioia) e 5 negative-spiacevoli (angoscia, paura, vergogna, disgusto, rabbia)
Un primo modo di classificare le emozioni è quello di dividerle in primarie e secondarie o complesse.
Questo tipo di classificazione non è nel senso dell'importanza, come se ci fossero emozioni di serie A e di serie B, ma nel senso di emozioni di base e di altre, quelle secondarie, che sono più complesse,
Un' emozione per essere PRIMARIA deve:
- le sue manifestazioni possono avvenire attraverso tutte le modalità espressive (vocali, facciali, gestuali)
- tali manifestazioni possono essere osservate in ogni popolazione umana, indipendentemente dalla cultura che la caratterizza
- hanno luogo in connessione a degli scopi
- nei bambini di età inferiore ad 1 anno
- nei primati non umani
- a queste espressioni viene universalmente attribuito lo stesso significato
Le emozioni primarie e di base sono la sorpresa, la rabbia, la gioia, il dolore, la paura, la tristezza.
EKMAN per rispondere alle critiche circa il concetto di emozioni fondamentali, ha descritto 9 tratti che inquadrano il comune ambiente di queste emozioni:
1) l'universalità dell'espressione facciale
2) la continuità tra il comportamento espressivo umano e quello animale
3) pattern di attivazione fisiologica specifici sia a livello del sistema nervoso autonomo che centrale
4) l'universalità degli antecedenti
5) il rapido instaurarsi delle manifestazioni emotive
6) la durata relativamente breve di ciascun episodio emotivo
7) la presenza di un meccanismo automatico nella valutazione dello stimolo che di fatto esclude in gran parte dalla coscienza l'esperienza emotiva delle emozioni fondamentali
8) la sensazione di incontrollabilità per ciò che si prova
9) la coerenza fra i vari elementi del sistema emozioni (es retroazione)
Le emozioni fondamentali non sono fissate in etichette verbali, ma sono soprattutto famiglie di emozioni e all'interno di ciascuna famiglia esistono sfumature diverse chiamate variazioni dovute a vari fattori come una differente intensità, una produzione simulata o spontanea delle emozioni, la presenza di specifiche azioni mimiche facciali, ecc., che talvolta hanno il loro riscontro in altrettante etichette verbali.
Tutte quelle che non soddisfano i precedenti criteri sono definite Complesse o sovradeterminate : risentono di componenti culturali e variano anche gli antecedenti emozionali (è diverso il modo di provare gelosia di uno Scandinavo e di un Siciliano) e comportano la presenza di obiettivi e di conoscenze che vengono acquisiti nel corso dello sviluppo sociale e cognitivo.
Un altro tipo di classificazione che viene fatta è tra emozioni positive e negative, laddove si intende per emozioni positive tutte quelle emozioni provando le quali l'individuo si trova in uno stato di benessere (gioia, felicità), mentre sono negative la rabbia, il dolore, la tristezza. La sorpresa, in questo contesto, è considerata un'emozione ambigua, in quanto può avere connotazione sia positiva che negativa, dipende dalla circostanza.
5°lezione
L'EVOLUZIONE DELLE EMOZIONI: DALNEONATO ALL' 8°MESE:
Alla nascita il bambino è già in grado di provare gioia, interesse, disgusto e dispiacere, cioè quelle emozioni che possono svolgere una funzione adattativa o motivandolo ad interagire con l'ambiente fisico e sociale, o segnalando alla madre i bisogni e i disagi che gli prova (es. il pianto).
Non sono presenti rabbia e paura, che sarebbero inutilmente penose e non potrebbero svolgere alcuna funzione adattativa nei primi mesi di vita quando il bambino ha uno scarso controllo sui propri movimenti e non è in grado né di cacciarsi in situazioni pericolose, né sfuggirle qualora vi si trovi.
Le emozioni fondamentali sono innate o apprese nei primi mesi di vita del bambino e non richiedono un'accurata distinzione fra sé e gli altri, né intenzionalità da parte del soggetto che le prova.
Le emozioni fondamentali implicano che il soggetto rimanga passivo e in un certo senso dominato dal loro apparire, piuttosto che viverle egli stesso intenzionalmente e consapevolmente.
La regolazione della componente espressivo-motoria, che comprende l'espressione facciale dell'emozione, sarebbe caratterizzata da una dimensione evolutiva, infatti vari ricercatori concordano con il fatto che le espressioni facciali di alcune emozioni siano presenti in forma compiuta sin dalle primissime settimane di vita del neonato.
Le due espressioni emotive più studiate sono il pianto e il sorriso.
Il pianto automatico è il pianto segnale che il bambino emette alla nascita.
Attraverso una indagine è stato possibile isolare tre distinti tipi di pianto:
1) pianto di fame
2) pianto stizzoso
3) pianto di dolore
La disposizione temporale delle sequenze ha una importanza funzionale di segnale per la madre: si è notato che se si invertono le sequenze le madri reagiscono in modo diverso. Il sorriso compare più tardi.
Le forme della sua manifestazione non sono diverse da quelle del pianto, alcuni autori hanno constatato come sia nelle prime settimane di vita c'è presente una risposta di sorriso, come risposta a vari stimoli uditivi (voce della madre).
A partire dalla 5°settimana di vita, l'interesse del bambino verso il volto umano tende a farsi esclusivo.
È verso i 3 mesi che compare una risposta di sorriso sociale, ma è sempre riferita al volto come struttura e non come volto umano personalizzato;
La rabbia compare verso i 4-6 mesi, inducendo il bambino a respingere ad aggirare ciò che ostacola le sue azioni, contribuisce ad allargare il suo dominio dell'ambiente e a far sì che si sviluppi un concetto di sé quale essere attivo.
La paura appare dopo i 6 mesi.
Verso l'età di 5-6 mesi il bambino non risponde più col sorriso a delle sagome bidimensionali ed entro l'8° mese sorride solo di fronte a dei volti familiari e li distingue da quelli di estranei. È venuta perciò a cessare la "dipendenza dallo stimolo" della risposta del sorriso, che viene mostrata selettivamente sulla base di una scelta sociale.
Mentre infatti al 3°mese di vita compare la risposta del sorriso di fronte a quella che Spitz ha chiamato una Gestalt privilegiata, è solo all'ottavo mese la faccia di un ... adulto viene chiaramente riconosciuta, e che la risposta del sorriso si presenta come qualcosa di più di un semplice segnale di benessere. In sintesi, ci troviamo dinanzi a delle espressioni emotive, sorriso e pianto ma non solo queste, geneticamente predisposte che, solo con la maturazione e con la differenziazione regolata dall'apprendimento e dallo sviluppo cognitivo, si codificano in schemi comportamentali ed in precise forme di espressione e comunicazione delle EMOZIONI.
Nel bambino tra i 15 e i 18 mesi compaiono due gruppi di emozioni:
1. emozioni dell'autoconsapevolezza (imbarazzo, empatia, invidia)
2. emozioni valutative dell'autoconsapevolezza (vergogna, colpa, soddisfazione, orgoglio)
Queste diversamente da quelle fondamentali, non sono caratterizzate da espressioni mimiche universali né da specifiche e distintive attivazioni fisiologiche.
CAMPOS - 1983 - 7 POSTULATI:
1. dalla nascita e per tutta la vita esiste nell'uomo un insieme di emozioni fondamentali
2. col procedere dello sviluppo cognitivo e sociale la formazione di nuovi obiettivi e desideri rende possibile l'apparizione di nuove emozioni che derivano dalla coordinazione di alcune emozioni fondamentali
3. cambia l'efficacia con cui varie circostanze possono suscitare una reazione emotiva
5. nonché i modi in cui si affrontano le emozioni e le circostanze che le hanno suscitate
4. cambiano le relazioni tra l'esperienza soggettiva delle emozioni e comportamenti espressivi
6. la ricettività alle emozioni altrui
7. le emozioni si socializzano sempre di più
2-3-4 riguardano le relazioni tra lo sviluppo cognitivo e quello emotivo
5-6-7 riguardano le relazioni tra lo sviluppo emotivo e quello sociale
CAROLYN SAARNY -
Dopo la formazione dell'attività rappresentativa intorno al 18 mese di vita, si possono distinguere 2 FASI NELLO SVILUPPO EMOTIVO:
1. le emozioni possono essere suscitate sia da eventi reali, sia da attività rappresentative;
- il bambino può provare delle emozioni in seguito alla previsione di un evento non ancora accaduto, ad es. essere contento perché pensa che il pomeriggio vedrà i cartoni animati o triste al pensiero che la madre andrà via per qualche giorno
- ricorda gli eventi che nel passato hanno suscitato in lui delle emozioni e può anticipare delle emozioni al ripresentarsi di un evento simile, ad es. mettersi a piangere perché sente dire che dovrà fare un'iniezione, o essere felice all'idea della gioia che la mamma proverà al vedere la sorpresa che lui ha preparato o spaventato al pensiero della punizione che gli verrà impartita una volta scoperta una marachella
- la previsione delle reazioni degli altri comincia ad influenzare anche il modo in cui il bambino esprime le proprie emozioni
- la comunicazione con gli altri attraverso il linguaggio verbale, gli consente di modificare le proprie valutazioni degli eventi attraverso il confronto con quelle fatte con gli altri: ad es. scoprire che gli altri trovano innocuo ciò che a lui incute paura o che trovano disgustose delle attività che lui trova divertenti
- lo sviluppo dell'attività rappresentativa gli consente di prevedere, ricordare, comunicare verbalmente e di provare delle emozioni come conseguenza di queste fantasie
2. le emozioni possono essere suscitate anche dalle conoscenze che il bambino possiede riguardo alle emozioni (circa intorno ai 7-8 anni)
- acquisisce la capacità di manipolare deliberatamente i propri comportamenti espressivi per scopi comunicativi e capisce che lo stesso può essere fatto dagli altri: ad es. può capire che un volto duro e minaccioso che lo guarda non è un'espressione di rabbia, ma un deliberato tentativo di intimidirlo, e reagire con ostinazione anziché con paura
- si rende conto che alcune emozioni sono suscitate negli altri dalla previsione dei suoi comportamenti nei loro confronti: ad es. che i genitori possono essere felici o turbati se devono dargli una notizia che può farlo contento o metterlo di cattivo umore
- comincia a porsi al di fuori delle proprie esperienze emotive e a riflettere su di esse
- l'accresciuta conoscenza delle emozioni e di alcune loro conseguenze può far sì che un'emozione provata in un certo momento ne susciti un'altra e si combini con essa dando luogo a un ciclo emotivo: ad es. la paura per un certo evento - un'interrogazione - suscita una nuova paura, per l'agitazione che si sta provando renderà ancora più arduo superare la prova.
6°lezione
PIAGET 1945:
Ogni schema contiene degli aspetti emotivi e cognitivi, vanno di pari passo arrivando alla formazione di strutture sempre più interconnesse ed equilibrate che si manifestano in una crescente stabilità emotiva.
I stadio sensomotorio o dell' intelligenza senso-motoria (0/2 anni):
Prevalgono l'attività sensoriale e quella motoria; prima vi sono dei riflessi innati (come prensione, suzione) che ha piacere di eseguire, poi acquisisce delle abitudini definite reazioni circolari che si suddividono in:
- primaria: differenzia gli oggetti, organizza la percezione
- secondaria: prensione volontaria, interesse per il mondo
- terziaria usa strumenti per raggiungere degli scopi
- quarternaria: esamina gli oggetti sperimentandone tutte le possibilità, associa i mezzi con i fini
All'inizio del periodo sensomotorio il bambino ha alcuni riflessi emozionali, cioè reazioni emotive innate, che vengono suscitate da stimoli specifici: ad es. la perdita di equilibrio suscita una sorta di trasalimento, precursore di ciò che più tardi potrà essere la paura; la soddisfazione di un bisogno provoca piacere, o se ha fame o viene limitato nel movimento, avrà una reazione di dispiacere.
Man mano che gli schemi di azione si differenziano e si integrano gli uni con gli altri, il bambino prova piacere o dispiacere, rabbia, a seconda che i suoi tentativi di raggiungere un certo effetto abbiano successo oppure no.
Col formarsi della nozione di oggetto, le persone vengono differenziate dagli oggetti fisici e persone familiari da quelle estranee e il bambino comincia a reagire con gioia all'avvicinarsi di una persona cara e con dispiacere al suo allontanamento e con paura alla presenza di un estraneo. Durante il 5°stadio diventa più attivo nell'esplorare l'ambiente e ad acquisire una consapevolezza pratica ma non rappresentativa di sé come un agente, che può riuscire o no a raggiungere certi scopi e al successo o insuccesso nel portare a termine una certa azione, il bambino reagisce non solo con piacere, dispiacere o rabbia, ma anche con dei sentimenti valutativi nei confronti di sé stesso.
II st. preoperatorio (2/7 anni):
Impara ad usare la rappresentazione di un'azione già svolta o da svolgere: le attività hanno a che fare con il pensiero logico (gioca alla casa, al dottore, compare il disegno, gioca con i cubi, con i lego, con le auto, impara a parlare).
Caratteristico del periodo è il pensiero egocentrico: il mondo c'è, ma è frutto dell'attività mentale del bambino, è lui che crea una realtà oggettiva e si scopre come oggetto in questo mondo; distingue tra pensiero egocentrico logico (agisce sulla procedura del ragionamento) ed ontologico (agisce sui contenuti della rappresentazione); per quanto riguarda le realtà naturali segue dei comportamenti tipici come animismo, finalismo, artificialismo.
Per il bambino egocentrico è il danno materiale più colpevolizzante che l'intenzione di fare un danno e la funzione della punizione è quella di ristabilire l'autorità.
Vi è un linguaggio egocentrico: prima un monologo collettivo, cioè un racconto continuo dell'attività motoria, a 4/5 anni diventa un linguaggio socializzato, domande e risp. adeguate, a 6/7 anni racconta storie e dà spiegazioni; inoltre dà per scontato che ciò che lui sa lo sappiano anche gli altri (egocentrismo verbale).
Sempre per egocentrismo è incapace di capire le relazioni (logica egocentrica), d'analisi e di sintesi, di risolvere un sillogismo, di gerarchizzare; non ragiona in modo induttivo o deduttivo, ma in modo transduttivo, dal particolare al particolare ed è incapace di muoversi dal genitore al partner e viceversa.
Vi è un realismo del pensiero infantile, cioè attribuire una realtà materiale a fenomeni psichici.
A 5 anni acquisisce il concetto di invarianza per stadi: materia, peso, volume, densità.
All'inizio del periodo preoperatorio - tra i 2 e 4 anni - appare l'attività rappresentativa, ma il bambino non è capace di costruire dei veri e propri concetti fondati su classificazioni stabili, ma forma dei pre-concetti che tengono conto solo di quegli aspetti delle cose degli eventi che maggiormente attirano di momento in momento, la sua attenzione. Analoga instabilità è presente nelle loro reazioni emotive: in un momento di rabbia può dire alla madre "ti odio" (attribuendo un significato diverso da quello del linguaggio di adulto, dove indica una relazione negativa durevole) e tornare allegro ed affettuoso nel giro di qualche minuto. È difficile che possa capire a pieno il significato" sono arrabbiato con te, ma ti voglio bene lo stesso".
Anche la considerazione che ha di sé è di difficile comprensione, è un pre-concetto instabile che può contenere valutazioni e sentimenti contraddittori; l'egocentrismo e la difficoltà a differenziare tra realtà oggettiva e soggettiva, caratteristici della prima fase di questo periodo, non gli fanno distinguere gli stati emotivi dalle azioni a cui essi possono portare: ad esempio in un momento di rabbia intensa può pensare di desiderare la morte dei suoi genitori e si senta atterrito come se realmente i suoi pensieri potessero mettere in pericolo la vita dei suoi cari.
Tra i 5 e 7 anni nell'ultima fase del periodo pre-operatorio, il bambino costruisce dei veri e propri concetti, cioè delle rappresentazioni più stabili di sé e degli altri e degli oggetti ed eventi della realtà con cui entra in contatto: tali rappresentazioni contengono delle informazioni sul significato emotivo che oggetti, eventi o attività presentano per il bambino, cioè sul valore positivo e negativo che essi hanno ai suoi occhi.
III st. operatorio concreto (7/11 anni):
Nella nostra cultura coincide con l'ingresso nella scuola: comprende il principio di invarianza (esp. di conservazione dei liquidi: bicchieri di forma diversa ma con liquido uguale) e ne spiega il perché attraverso 3 criteri: identità, reversibilità, compensazione, funzione; sono in grado di considerare più di un aspetto della situazione alla volta; acquisisce il concetto di numero, è capace di svolgere un'attività articolata (sommare, scomporre, articolare, disegnare tenendo conto della prospettiva); è capace di operazioni mentali logiche (numerazione, seriazione, classificazione, infra-logiche (spazio: disegno e geometria e tempo: velocità e sorpasso).
Tra i 7 e gli 11 anni, con la formazione delle operazioni concrete, il bambino utilizzagli stessi raggruppamenti operatori con cui organizza le proprie conoscenze di oggetti ed eventi fisici, anche per interpretare le situazioni interpersonali e per organizzare gli schemi in cui predomina il contenuto emotivo .Comincia a fare riferimento ad una specie di catalogo implicito: al vertice di trova ciò che è meglio, più importante, più giusto, con gli altri oggetti disposti in ordine decrescente; all'inizio non è consapevole di questo catalogo e l'ordine può essere fluttuante; col tempo sviluppa il sentimento che alcune attività sono più desiderabili e altre meno e il riferimento a questa gerarchia assumerà via via un'importanza sempre maggiore nei casi in cui occorre fare delle scelte e prendere delle decisioni: sta sviluppando la conservazione dei sentimenti, cioè il sentimento di ciò che sia più o meno importante ora non cambia più ogni volta che cambiano le circostanze
IV st. operatorio formale (11-16 anni):
Comincia a formulare ragionamenti astratti, ed opera su tali astrazioni ipotetiche e controfattuali; sviluppa ideologie religiose e politiche; acquisisce la capacità combinatoria, delle operazioni interproposizionali.
Pensiero morale dell'adolescente: legato al pensiero logico astratto ed esaustivo, caratterizzato su una riflessione sui valori.
Tra i 12 e i 16 anni durante il periodo delle operazioni formali il ragazzo può avere sentimenti non solo nei confronti di persone cose attività concrete, ma anche di idee astratte che ora gli sono accessibili.
7°lezione
I MECCANISMI DI DIFESA E LE EMOZIONI
Quando i sentimenti penosi raggiungono una tale intensità o quando le circostanze che li hanno creati non possono essere mutate, invece di effettuare delle azioni per modificare la realtà, l'uomo non può far altro che intervenire su quei processi e rappresentazioni cognitive che hanno contribuito a suscitare l'emozione, mettendo in atto dei piani per far fronte alle proprie emozioni anziché dei piani per far fronte alla realtà, detti meccanismi di difesa.
Il bambino nello stadio pre-operatorio ha a disposizione meccanismi di difesa di rimozione (impedisce la rievocazione di quelle rappresentazioni che potrebbero contribuire a suscitare un'emozione negativa), negazione (es. io ho una malattia incurabile, diventa io non sono malata) e spostamento (io picchio mia madre diventa io picchio la bambola).
Il bambino, nel periodo operatorio concreto, oltre ai precedenti ha a disposizione il meccanismo di difesa della formazione reattiva (l'azione viene trasformata nel proprio opposto: io odio mia sorella diventa io amo mia sorella).
Il bambino, nel periodo operatorio formale, oltre ai precedenti ha a disposizione il meccanismo di difesa della razionalizzazione (le operazioni proposizionali possono essere utilizzate per elaborare dei complessi ragionamenti a partire da premesse alterate dell'azione dei meccanismi di difesa; adolescenti ed adulti possono così costruire concezioni logicamente coerenti, ma fondate su premesse viziate le quali consentono di tollerare comportamenti che altrimenti potrebbero generare sensi di colpa).
LE DIVERSE FORME DI CONTROLLO DELLE EMOZIONI:
CONTROLLO COGNITIVO-SCHERER:
Le emozioni sono un sistema di informazione e di scambio di dati tra organismo e ambiente: l'informazione in entrata, nel momento in cui viene accolta dall'organismo passa attraverso una serie di controlli valutativi dello stimolo (come un computer all'avvio) organizzato gerarchicamente da quelli più elementari a quelli più sofisticati:
1° controllo: grado di novità di uno stimolo, quanto esso risulta atteso-inatteso
2° controllo: grado di piacevolezza-spiacevolezza intrinseca dello stimolo (indipendente dallo scopo dell'organismo, ma da essi dipende la sopravvivenza)
3° controllo: conduttività dei fini e degli scopi presente in un determinato stimolo, se uno stimolo favorisce-impedisce il raggiungimento di uno scopo ritenuto prioritario per l'organismo (es uno piacevole può essere visto come un disturbo per il raggiungimento di un traguardo e viceversa)
4° controllo: possibilità che l'organismo ha di far fronte alle conseguenze di determinati eventi e richiede un punto di riferimento in base al quale paragonare il proprio potenziale comportamento
- se l'organismo possa o meno controllare un evento
- se l'organismo possa o meno liberarsi dal potere di un evento attraverso il ricorso a un'azione esterna tipo lotta o fuga
- se è necessaria una ricostruzione o ristrutturazione interna degli scopi e del concetto di sé
5° controllo: compatibilità dello stimolo con le norme sociali e con il concetto di sé (presente solo nell'uomo)
CONTROLLO DELLE RISPOSTE FISIOLOGICHE
Le risposte emotive implicano l'attivazione
A) del Sistema Nervoso Centrale SNC: legato all'elaborazione cognitiva del dato
emotivo, uno stato di attivazione emozionale, definito arousal, influenza
l'attività elettrica della corteccia cerebrale e dà luogo a tracciati
elettroencefalici caratteristici con un blocco dell'attività alfa; Il SNC è
determinante nell'attivazione dei gruppi muscolari volontari, soprattutto
muscoli facciali.
B) del Sistema Nervoso Autonomo SNA: non esiste emozione dove non vi siano cambiamenti nelle funzioni del corpo: sono facilmente osservabili: tremare, arrossire, sudare, modificazioni del diametro della pupilla, alterazioni del ritmo respiratorio; altre sono risposte interne come frequenza del battito cardiaco, valore della pressione sanguigna, conduttanza cutanea, salivazione. Sono tutti involontari e difficili da inibire spontaneamente
C) del Sistema Endocrino: la produzione da parte delle ghiandole surrenali di adrenalina e noradrenalina; l'ormone tiroideo e l'ipofisi soprattutto nell'indicazione di stress e ansia; vi è un collegamento diretto tra amigdala come sentinella delle emozioni e il talamo che consente una via veloce di trasmissione del dato emotivo in condizioni di urgenza che non passa per la neocorteccia. il controllo dell'attività emotiva è affidato ai lobi prefrontali (quello sinistro modula le emozioni negative attivate dal lobo destro: ictus...distruzioni del lobo sinistro predispongono a catastrofici attacchi di terrore ed ansia, mentre quelli del lobo destro danno origine ad allegria non motivata.
8°lezione
LA PAURA
Che cos'è la paura?
Con questo termine si identificano stati di diversa intensità emotiva che vanno da una polarità fisiologica come il timore, l'apprensione, la preoccupazione, l'inquietudine o l'esitazione sino ad una polarità patologica come l'ansia, il terrore, la fobia o il panico.Il termine paura viene quindi utilizzato per esprimere sia una emozione attuale che una emozione prevista nel futuro, oppure una condizione pervasiva ed imprevista, o un semplice stato di preoccupazione e di incertezza.
L'esperienza soggettiva, il vissuto fenomenico
della paura è rappresentata da un senso di forte spiacevolezza e da un intenso
desiderio di evitamento nei confronti di un oggetto o situazione giudicata
pericolosa.
Altre costanti dell'esperienza della paura sono la tensione che può
arrivare sino alla immobilità (l'essere paralizzati dalla paura) e la
selettività dell'attenzione ad una ristretta porzione dell'esperienza. Questa
focalizzazione della coscienza non riguarda solo il campo percettivo esterno ma
anche quello interiore dei pensieri che risultano statici, quasi perseveranti.
La tonalità affettiva predominante nell'insieme risulta essere negativa,
pervasa dall'insicurezza e dal desiderio di fuga.
Da dove nasce la paura?
Dai risultati di molte ricerche
empiriche si giunge alla conclusione che potenzialmente qualsiasi oggetto,
persona o evento può essere vissuto come pericoloso e quindi indurre una
emozione di paura. La variabilità è assoluta, addirittura la minaccia può
generarsi dall'assenza di un evento atteso e può variare da momento a momento
anche per lo stesso individuo.
Essenzialmente la paura può essere di natura innata oppure appresa. I fattori
fondamentali risultano comunque essere la percezione e la valutazione dello
stimolo come pericoloso o meno.
Le paure innate originano da:
- stimoli fisici molto intensi come il dolore oppure il rumore;
- oggetti, eventi o persone sconosciuti dai quali l'individuo non sa cosa aspettarsi e neppure come eventualmente affrontare;
- situazioni di pericolo per la sopravvivenza dell'individuo o per l'intera specie: l'altezza, il buio, il freddo, l'abbandono da parte della figura di attaccamento;
- circostanze in cui è richiesta l'interazione con individui o animali aggressivi.
Esempi di paure tipicamente innate sono: la paura degli estranei, del buio, la paura per certi animali (ragni e serpenti), il terrore alla vista di parti anatomiche umane amputate.
Le paure apprese originano da:
- esperienze dirette e che si sono dimostrate penose e pericolose
- riguardano una infinita varietà di stimoli
- il meccanismo universale responsabile dell'acquisizione di paure apprese viene definito condizionamento, che può trasformare un qualunque stimolo neutro in stimolo fobico, mediante la pura associazione per vicinanza spaziale e temporale ad uno stimolo originariamente fonte di paura.
Come il corpo manifesta la paura?
La "faccia delle paura" si
manifesta in un modo molto caratteristico: occhi sbarrati, bocca semi aperta,
sopracciglia avvicinate, fronte aggrottata. Questo stato di tensione dei
muscoli del viso rappresenta l'espressione della paura che è ben riconoscibile
anche in età precoce e nelle diverse culture.
Le alterazioni psicofisiologiche sembrano differenziarsi fra quelle che si
associano a stati di paura intensi, come il panico e la fobia, e quelle invece
concomitanti alla preoccupazione e all'ansia. Precisamente, uno stato di paura
acuta ed improvvisa caratteristica del panico e della fobia, si accompagna ad
una attivazione del sistema nervoso autonomo parasimpatico, si ha quindi un
abbassamento della pressione del sangue e della temperatura corporea,
diminuzione del battito cardiaco e della tensione muscolare, abbondante
sudorazione e dilatazione della pupilla. Il risultato di tale attivazione è una
sorta di paralisi, ossia l'incapacità di reagire in modo attivo con la fuga
o l'attacco. La funzione di questa staticità indotta dallo stimolo fobico
sembra quella di difendere l'individuo dai comportamenti aggressivi d'attacco
scatenati dalla fuga e dal movimento. Paradossalmente, in casi estremi, tale
reazione parasimpatica può condurre alla morte per collasso cardiocircolatorio.
Stati di paura meno intensi invece attivano il sistema nervoso simpatico, per
cui i pelli si rizzano, ai muscoli affluisce maggior sangue e la tensione
muscolare ed il battito cardiaco aumentano; il corpo è così pronto all'azione
finalizzata all'attacco oppure alla fuga.
Quali sono le funzioni della
paura?
Sicuramente, la paura ha una funzione
positiva, così come il dolore fisico, di segnalare uno stato di emergenza ed
allarme, preparando la mente il corpo alla reazione che si manifesta come
comportamento di attacco o di fuga. Inoltre, in tutte le specie studiate
l'espressione della paura svolge la funzione di avvertire gli altri membri del
gruppo circa la presenza di un pericolo e quindi di richiedere un aiuto e
soccorso. Dal punto di vista biologico - evoluzionista sia il vissuto
soggettivo, attraverso i processi di memoria e di apprendimento, sia le
manifestazioni comportamentali, indifferentemente fuga, paralisi o attacco, che
le modificazioni psicofisiologiche (attivazione parasimpatica o attivazione
simpatica) tendono verso la conservazione e la sopravvivenza dell'individuo e
della specie. Ovviamente, se la paura viene estremizzata e resa eccessivamente
intensa, diventando quindi ansia, fobia o panico, perde la funzione
fondamentale e si converte in sintomo psicopatologico.
Come guarire dalla paura?
La paura, come abbiamo detto, ha un
alto valore funzionale, finalizzato alla sopravvivenza. Per esempio, ricordarsi
che quel tipo di animale rappresenta un pericolo perché aggressivo e feroce
oppure velenoso, costituisce un innegabile vantaggio. Oppure, preparare il
proprio corpo ad un furioso attacco o ad una repentina fuga può in certi casi
garantire la sopravvivenza. Infine, anche uno stato di "paralisi da
paura" può salvarci dall'attacco di un feroce aggressore che non attende
altro che una nostra minima reazione. Quindi le cure contro la paura si
rivolgono solo a quei casi in cui essa rappresenta uno stato patologico, come
ad esempio attacchi di panico o di ansia di fronte ad uno stimolo assolutamente
non pericoloso.
Due sono fondamentalmente i tipi di cura contro la paura patologica:
L'approccio comportamentista mira alla eliminazione del sintomo della manifestazione della paura, attraverso tecniche di familiarizzazione e assuefazione allo stimolo fobico, basate su meccanismi di condizionamento.
L'approccio cognitivista, è finalizzato invece alla eliminazione della causa della paura, si rivolge quindi alla percezione e alla valutazione degli stimoli o eventi etichettati come pericolosi.
L'approccio cognitivista, è finalizzato invece alla eliminazione della causa della paura, si rivolge quindi alla percezione e alla valutazione degli stimoli o eventi etichettati come pericolosi.
9°lezione
LA RABBIA
Che cos'è la rabbia?
La rabbia è una emozione tipica,
considerata fondamentale da tutte le teorie psicologiche poiché per essa
è possibile identificare una specifica origine funzionale, degli antecedenti
caratteristici, delle manifestazioni espressive e delle modificazioni
fisiologiche costanti, delle prevedibili tendenze all'azione. Essendo
un'emozione primitiva, essa può essere osservata sia in bambini molto piccoli
che in specie animali diverse dell'uomo.
Quindi, insieme alla gioia e al dolore,
la rabbia è una tra le emozioni più precoci.
Essendo l'emozione la cui manifestazione viene maggiormente inibita dalla
cultura e dalle società attuali, molto interessanti risultano gli studi
evolutivi, in grado di analizzare le pure espressioni della rabbia, prima cioè
che vengano apprese quelle regole che ne controllano l'esibizione. Inoltre, la
rabbia fa parte della triade dell'ostilità insieme al disgusto e al disprezzo, e ne rappresenta il fulcro e
l'emozione di base. Tali sentimenti si presentano spesso in combinazione e pur
avendo origini, vissuti e conseguenze diverse risulta difficile identificare
l'emozione che predomina sulle altre. Moltissimi risultano essere i termini
linguistici che si riferiscono a questa reazione emotiva: collera,
esasperazione, furore ed ira rappresentano lo stato emotivo intenso della
rabbia; altri invece esprimono lo stesso sentimento ma di intensità minore,
come: irritazione, fastidio, impazienza.
Da dove nasce la rabbia?
Per la maggior parte delle teorie la
rabbia rappresenta la tipica reazione alla frustrazione e alla costrizione, sia
fisica che psicologica.
Pur rappresentandone i denominatori comuni, la costrizione e la frustrazione
non costituiscono in sé le condizioni sufficienti e neppure necessarie perché
si origini il sentimento della rabbia. La relazione causale che lega la
frustrazione alla rabbia non è affatto semplice. Altri fattori sembrano infatti
implicati affinché origini l'emozione della rabbia. La responsabilità e la
consapevolezza che si attribuisce alla persona che induce frustrazione o
costrizione sembrano essere altri importanti fattori.
Ancor più delle circostanze concrete
del danno, quello che più pesa nell'attivare una emozione di rabbia sembra
cioè essere la volontà che si attribuisce all'altro di ferire e l'eventuale
possibilità di evitare l'evento o situazione frustrante.
Ci si arrabbia quando qualcosa o qualcuno si oppone alla realizzazione di un
nostro bisogno, soprattutto quando viene percepita l'intenzionalità di
ostacolare l'appagamento.
Contro chi ci si arrabbia?
L'emozione della rabbia può essere quindi definita come la reazione che consegue ad una precisa sequenza di eventi:
- stato di bisogno
- oggetto- vivente o non - che si oppone alla realizzazione di tale bisogno
- attribuzione a tale oggetto dell'intenzionalità di opporsi
- assenza di paura verso l'oggetto frustrante
- forte intenzione di attaccare o aggredire l'oggetto frustrante
- azione di aggressione che si realizza mediante
l'attacco
Questo è quello che avviene in natura,
anche se l'evoluzione sembra aver plasmato forti segnali che inducono la paura
e di conseguenza la fuga, impedendo così l'aggressione
dell'avversario. Nella specie umana, di solito, si assiste non solo ad una
inibizione della tendenza all'azione di aggressione e attacco ma
addirittura al mascheramento dei segnali della rabbia verso l'oggetto
frustrante. Nella specie umana, la cultura e le regole sociali a volte
impediscono di dirigere la manifestazione e l'azione direttamente verso
l'agente che scatena la rabbia.
Tre possono quindi essere i fondamentali destinatari finali della nostra rabbia:
oggetto che provoca la frustrazione
un oggetto diverso rispetto a quello che provoca la frustrazione (spostamento dall'obiettivo originale)
la rabbia può infine essere diretta verso sé stessi, trasformandosi in autolesionismo ed auto aggressione.
Come il corpo manifesta la rabbia?
Per quanto siano estremamente forti le
pressioni contro la manifestazione della rabbia, essa possiede una tipica
espressione facciale, ben riconoscibile in tutte le culture studiate.
L'aggrottare violento della fronte e delle sopracciglia e lo scoprire e
digrignare i denti, rappresentano le modificazioni sintomatiche del viso che
meglio esprimono l'emozione della rabbia. Tutta la muscolatura del corpo può
estendersi fino all'immobilità.
Le sensazioni soggettive più frequenti possono essere: la paura di perdere il
controllo, l'irrigidimento della muscolatura, l'irrequietezza ed il calore. La
voce si fa più intensa, il tono sibilante, stridulo e minaccioso. L'organismo
si prepara all'azione, all'attacco e all'aggressione.
Le variazioni psicofisiologiche sono quelle tipiche di una forte attivazione
del sistema nervoso autonomo simpatico, ossia: accelerazione del battito
cardiaco, aumento della pressione arteriosa e dell'irrorazione dei vasi
sanguigni periferici, aumento della tensione muscolare e della sudorazione. Gli
studi sugli effetti dell'inibizione delle manifestazioni aggressive sembrano
indicare che chi non esprime in alcun modo i propri sentimenti di rabbia
tende a viverli per un tempo più lungo.
Quali sono le funzioni della rabbia?
Le modificazioni psicofisiologiche che
si manifestano attraverso la potente impulsività e la forte propensione
all'agire con modalità aggressive sono funzionali alla rimozione
dell'oggetto frustrante. La rabbia è sicuramente uno stato emotivo che
aumenta nell'organismo il propellente energetico utilizzabile per passare alle
vie di fatto, siano queste azioni oppure solo espressioni verbali. La rimozione
dell'ostacolo che si oppone alla realizzazione del bisogno può avvenire sia
attraverso l'induzione della paura e la conseguente fuga sia mediante un violento
attacco.
Le numerose ricerche compiute sui comportamenti di specie diverse dall'uomo, hanno dimostrato che l'ira e le conseguenti manifestazioni aggressive sono determinate da motivi direttamente o indirettamente legati alla sopravvivenza dell'individuo e delle specie. Gli animali spesso attaccano perché qualcosa li spaventa oppure perché vengono aggrediti da predatori, per avere la meglio sul rivale sessuale, per cacciare un intruso dal territorio o per difendere la propria prole.
Negli uomini invece, i motivi alla base di un attacco di rabbia riguardano maggiormente la frustrazione di attività che erano connesse con l'immagine e la realizzazione di sé. Lo scopo in questo caso sembra più rivolto a modificare un comportamento che non si ritiene adeguato. L'arrabbiarsi, motivando chiaramente le motivazioni dello scontento, sembra infatti essere una procedura per ottenere un utile cambiamento.10°lezione
L'IMBARAZZO
Tutte le teorie psicologiche delle emozioni ammettono o sottolineano che le reazioni emotive hanno una funzione adattativa per l'individuo e per la specie. In questo senso se alle emozioni considerate fondamentali - quali felicità, tristezza, paura, rabbia, disgusto - si attribuiscono funzioni e scopi evolutivi semplici - quali mantenere i legami affettivi con le figure di attaccamento, segnalare l'esistenza di pericoli, difendersi dagli attacchi e dalle circostanze pericolose - alle emozioni più complesse si attribuiscono funzioni maggiormente evolute e connesse alla formazione della consapevolezza di se stessi e alla regolazione delle proprie relazioni con gli altri.
Da questo punto di vista, l'imbarazzo è una tipica emozione sociale fortemente connessa alla percezione che ciascuno di noi ha di se stesso e delle sue caratteristiche in relazione agli altri. Posto che l'imbarazzo potrebbe non essere solo un'emozione negativa, in questo articolo si è cercato di fornire una definizione di questo stato emotivo, di considerare le situazioni e i motivi che più comunemente suscitano imbarazzo, di rilevare se ci sono persone che sperimentano questo stato emotivo più facilmente di altre, di descrivere i correlati comportamentali e psico-fisiologici di questa emozione e, in ultimo, di suggerire alcuni accorgimenti per tenerla sotto controllo.
Alcune definizioni
Non è facile fornire una definizione
per il termine imbarazzo dal momento che è stato utilizzato da letterati e
studiosi in svariati modi e con significati abbastanza distanti tra loro. D'Urso
(1990) ad esempio, riporta che il significato primitivo del termine, è
quello di ingombro materiale dovuto alla presenza di oggetti voluminosi
d'ostacolo a qualche attività. In epoca più recente compaiono i significati di
incombenza, compito sgradevole oppure preoccupazione e inquietudine. A partire
dal secolo scorso si diffonde l'uso di questo termine nell'accezione di
«difficoltà economica» oppure, in un ambito più legato al corporeo,
nell'accezione di peso, o appunto, imbarazzo di stomaco. In termini di vissuti emotivi, per imbarazzo si intende uno stato più o
meno intenso e di durata variabile (da pochi secondi a pochi minuti) che si
manifesta esclusivamente in una situazione sociale, caratterizzato da
modificazioni psicofisiologiche e manifestazioni comportamentali esprimenti
disagio.
Perché ci si imbarazza?
Tutti gli studiosi, siano essi sociologi, antropologi o psicologi, concordano nel legare strettamente il vissuto dell'imbarazzo ad eventi che mettono in crisi l'immagine pubblica dell'individuo e nel connettere tale vissuto emotivo all'hic et nunc, quindi al presente e al luogo dell'azione: infatti perché si origini è necessario che sulla scena siano presenti chi si imbarazza e chi causa o assiste all'imbarazzo (Goffman, 1956; Modigliani, 1968; Edelmann, 1987).
Da questo punto di vista non c'è un imbarazzo privato, né un imbarazzo prospettivo o retrospettivo (D'Urso, 1990). Un altro punto d'accordo tra gli studiosi è l'aver rilevato come spesso le situazioni che generano imbarazzo sono quelle in cui mancano norme esplicite di comportamento, quelle dove non è ben chiaro quali siano le norme comportamentali più adeguate o socialmente accettate. Un esempio tipico e quello in cui ci si trova in due in un ascensore: non si sa mai bene quali atteggiamenti o comportamenti tenere e questo sovente genera imbarazzo. Un altro modo per dar ragione dell'imbarazzo è quello di considerarlo come sanzione per una regola sociale violata o in pericolo (Modigliani, 1971). Secondo Castelfranchi (1988) invece il nucleo dell'imbarazzo consisterebbe in una perdita, avvenuta o temuta e comunque momentanea, della propria "autostima situazionale: è il caso ad esempio di una persona in genere agile, che in una particolare circostanza e di fronte ad altri si è mostrata goffa e impacciata.
Secondo D'Urso e Trentin (1992) le condizioni che normalmente devono essere presenti perché insorga l'imbarazzo sono:
1) la consapevolezza che un proprio comportamento è
regolato da norme sociali;
2) la presenza di un pubblico e in particolare il sentire su di sé
l'attenzione degli altri;
3) il desiderio di conformarsi alle norme e il timore di
infrangerle;
4) l'insicurezza sulle proprie capacità e quindi la paura di perdere la
faccia davanti agli altri.
Quando ci si imbarazza?
Quali sono le situazioni nelle quali è
più facile imbarazzarsi?
Non esiste una risposta univoca a questa domanda perché molto dipende da quali
sono i valori, le regole che ciascuno ha e soprattutto dall'immagine che di noi
stessi abbiamo e che desideriamo preservare davanti agli altri. Tuttavia è
possibile individuare alcune situazioni nelle quali più che in altre è
possibile provare imbarazzo.
In genere queste situazioni sono connesse ad un fallimento in pubblico, alla contraddizione fra le richieste di ruoli diversi, alla perdita del contegno o del controllo del proprio corpo, all'intimità fisica ed emotiva (Gross e Stone, 1964; Sattler, 1965).
Esistono situazioni nelle quali siamo imbarazzati per l'imbarazzo di qualcuno che ci è vicino, oppure circostanze nelle quali noi lo sperimentiamo al posto di qualcun altro.
Altra situazione che spesso genera imbarazzo è l'essere oggetto di lodi o di attenzione o il venir insigniti di premi. In questo caso l'imbarazzo si genera non tanto per la situazione di per sé positiva quanto per il timore o la sensazione di dover subire ulteriori valutazioni e quindi di non dimostrarsi all'altezza della situazione.
Cosa ci succede quando siamo imbarazzati?Le manifestazioni comportamentali
tipiche dell'imbarazzo, quali il rossore,
l'irrequietezza motoria, le alterazioni della voce, oltre a segnalare agli
altri lo stato emotivo in cui ci si trova, agiscono come causa ulteriore
d'imbarazzo. Si tratta di un rinforzo circolare che opera per l'imbarazzo
più che per ogni altra emozione (D'Urso e Trentin, 1992).
A livello comportamentale, l'imbarazzo si esprime soprattutto con il
distogliere lo sguardo dall'interlocutore, abbassandolo o deviandolo su punti
dello spazio per nulla interessanti; la postura può essere o estremamente rigida
con pochissimi movimenti o al contrario presentare movimenti irrequieti di
braccia, gambe, mani e continui cambi di posizione. Quando ci si sente
imbarazzati si mettono in atto dei comportamenti tesi ad allentare la tensione
emotiva, quali toccarsi ripetutamente i capelli o giocherellare con piccoli
oggetti. Anche il linguaggio delle persone imbarazzate si modifica (Kast e
Mahl, 1965). La voce diventa stridula, con tonalità irregolari, spesso si
balbetta o si incespica, il volume della voce si alza e/o si abbassa rispetto
alla propria norma, si fanno insoliti errori di grammatica, vi sono esitazioni,
false partenze, lunghe pause tra una parola e l'altra. A livello
psico-fisiologico il segnale caratteristico dell'imbarazzo è l'arrossarsi
in modo repentino del viso e del collo fattore dovuto ad una vasodilatazione
periferica; il battito del cuore rallenta (anche se spesso si pensa che
aumenti), la temperatura corporea si innalza o ha degli sbalzi, i vasi
sanguigni si dilatano, aumenta la tensione muscolare, la respirazione si fa
irregolare, si suda di più e la motilità gastrica così come la secchezza delle
fauci aumentano (D'Urso e Trentin, 1992).
Ci sono persone che si imbarazzano più di altre?In genere si imbarazzano più facilmente le persone che tendono da un lato, a sopravvalutare l'importanza e la severità del giudizio degli altri, dall'altro a sottovalutare le proprie capacità(Edelman, 1987); spesso si tratta di persone che hanno una forte consapevolezza di sé e del proprio modo di apparire in pubblico, di persone che hanno livelli di aspirazioni più alti della media e che presentano una grande capacità empatica. Rispetto alla facilità con cui ci si imbarazza, non sembra ci siano differenze significative tra uomini e donne, anche se le donne sembra si imbarazzino più facilmente per il doversi esibirsi in pubblico e per l'intimità fisica, mentre gli uomini si imbarazzano di più per questioni legate al proprio prestigio economico e professionale (D'Urso, Trentin, 1992).
Che fare quando si è in imbarazzo?
D'Urso e Trentin (1992) riportano alcuni accorgimenti da
adottare in situazioni imbarazzanti:
- Se avete fatto una goffaggine piccola e che danneggia solo voi siate i primi a farla notare e a riderci sopra
- se avete fatto una goffaggine grossa e che danneggia qualcuno, scusatevi rapidamente, mettete in chiaro che riparerete e cambiate discorso
- se siete imbarazzati senza aver fatto nulla, per paura di essere brutti,
poco eleganti, o di balbettare, o non sapere cosa dire, vi si aprono due
strade:
a) quella eroica: dire come vi sentite. È consigliabile però in una situazione a due oppure di fronte ad un pubblico vero e attento ad esempio quello di una conferenza. Da evitare in situazioni di gruppo informale di persone poco attente.
b) quella facile: cercare di mantenere l'autocontrollo, non fare assolutamente niente, guardare con interesse gli altri, ascoltare, cercare di capire senza preoccuparsi di dover dire qualcosa, cercare di rendere a sé stessi il più familiare possibile la situazione dal momento che l'imbarazzo diminuisce quanto più una situazione è familiare e prevedibile
In conclusione, sentirsi in imbarazzo non è per nulla piacevole e per quanto possibile si cerca in ogni modo di evitare occasioni che possano alimentare questo stato emotivo. Tuttavia, l'imbarazzo rivela ciò che per noi conta, il valore che attribuiamo agli altri e alle cose.
Imbarazzarsi di fronte a qualcuno significa riconoscergli che per noi è importante, in un certo senso è come rendere omaggio al nostro interlocutore. In effetti, come sostiene D'Urso (1990), se l'imbarazzo parla un po' male dell'imbarazzato, parla bene dell'imbarazzante o comunque segnala che gli viene attribuito valore e questo, da un certo punto di vista e in talune circostanze, non può che attribuire un fascino sottile alla relazione.11°lezione
DISGUSTO E DISPREZZO
Tutti noi, anche se probabilmente con modalità ed intensità diverse,
proviamo emozioni e quotidianamente sperimentiamo quanto i nostri pensieri e
comportamenti siano da esse influenzati. Le emozioni, oltre a dare colore alla
nostra esistenza, hanno anche un valore evolutivo e adattivo per l'individuo e
la specie. Tale assunto è valido non solo per le emozioni più semplici e
universalmente riconosciute, ma anche per le emozioni complesse maggiormente
connesse all'interazione sociale.
Viene qui analizzato il valore adattivo ed il manifestarsi di due emozioni tra
loro connesse che sono l'emozione fondamentale del disgusto e quella
complessa del disprezzo.
In misura maggiore o minore, tutti noi proviamo emozioni e sperimentiamo quanto i nostri pensieri e comportamenti siano da esse influenzati.
Del resto, le emozioni svolgono una funzione molto importante per
l'individuo e hanno un valore evolutivo per la specie in quanto sono in grado
di trasmettere rapidamente un contenuto semplice ma di grande valore
adattivo.
Pensiamo ad esempio alle cosiddette emozioni fondamentali quali felicità,
tristezza, paura, rabbia, disgusto.
Queste ultime sono attivate da categorie di individui o di oggetti che
possiedono un alto significato per l'individuo e la specie: in questo senso,
felicità e tristezza sono le tipiche emozioni connesse alla presenza o alla
perdita delle figure di attaccamento, quali ad esempio le figure genitoriali,
il partner, i figli, i compagni o gli amici; al contrario la paura e la rabbia
sono evocate da concorrenti, da nemici o da eventi nel territorio; infine il
disgusto è collegato con il cibo e segnala la presenza di sostanze dannose (D'Urso,
1990).
Allo stesso modo anche le emozioni complesse, quali ad esempio l'imbarazzo, la vergogna, il senso di colpa, l'invidia, la gelosia, il disprezzo, hanno un loro valore adattivo. Infatti, tali emozioni, essendo strettamente connesse al modo di percepire sè stessi e il proprio modo di relazionarsi con l'ambiente esterno, consentono all'individuo di modulare al meglio le sue relazioni sociali. Da questo punto di vista appare interessante descrivere e confrontare, a partire da una prospettiva evolutiva e adattiva, due emozioni che, sebbene abbiano ricevuto meno attenzione di altre, sono comunque importanti da un punto di vista funzionale e cioè: l'emozione fondamentale del disgusto e l'emozione ad essa vicina, ma più complessa quale il disprezzo.
Il valore "adattivo" del disgusto e del disprezzo:
A differenza della maggior parte delle emozioni, il disgusto ha per
stimolo scatenante non un essere vivente, ma un qualcosa di inanimato
rappresentato essenzialmente dal cibo. Il disgusto è considerato un'emozione
fondamentale, è riconosciuto universalmente nelle sue manifestazioni e secondo
l'interpretazione corrente ha la funzione di proteggere dal rischio di entrare
in contatto e specialmente di ingerire sostanze potenzialmente dannose.
Si prova disgusto principalmente di fronte a stimoli sensoriali: vedere,
toccare o essere colpiti dall'odore di qualcosa che ispira repulsione, spinge
ad allontanare dal proprio campo percettivo l'oggetto disgustoso, distogliendo
lo sguardo, scuotendo le dita o sputandolo se lo si era già messo in bocca (Garotti,
1992).
Anche il disprezzo ha una valenza adattiva. In una prospettiva evoluzionistica
lo si può considerare come una modalità espressiva che serve per preparare
l'individuo o il gruppo a fronteggiare un avversario pericoloso, un nemico (D'Urso
e Trentin, 1992). Come il disgusto, anche il disprezzo mette in guardia
l'individuo da situazioni potenzialmente pericolose, ma a differenza del
disgusto, sembra essere un'emozione più evoluta in quanto ha come referente
principale non un oggetto inanimato, ma un essere vivente ed è connesso con
l'interazione sociale. Da questo punto di vista il disprezzo è considerato
un'emozione complessa non solo, come si è visto, per il suo referente, ma anche
perché è riconosciuto con minore facilità rispetto ad altri stati emotivi
primari e perché si manifesta più tardi: infatti l'emozione del disprezzo
compare tra i 15 e i 18 mesi d'età e si ipotizza che su di essa e sulla sua
espressione influiscano le regole sociali e culturali che il bambino apprende
durante il suo sviluppo (Izard e Buechler, 1979).
Come si manifestano?
Il disgusto è riconosciuto e si manifesta in modo universale tramite un'espressione facciale molto caratteristica e poco controllabile che consiste principalmente nell'arricciare le narici e nell'allargare la bocca come per spingere fuori il suo contenuto. L'emozione del disgusto, quando è particolarmente intensa, è accompagnata da nausea e vomito. Generalmente di fronte ad un oggetto che provoca disgusto tutto il corpo si contrae e cerca di allontanarsi dall'oggetto in questione. Inoltre, molto spesso in concomitanza a questi comportamenti, si emettono vocalizzazioni che sono riconoscibili come segnali di ribrezzo. Esistono alcune somiglianze nel modo di manifestare fisicamente disprezzo e disgusto: infatti l'espressione facciale del disprezzo si differenzia dall'espressione del disgusto solo per la minore intensità e, qualora il disprezzo verso una persona sia molto forte, esso può manifestarsi come ripugnanza o nausea esprimendosi in maniera molto simile al disgusto per un odore ripugnante (D'Urso e Trentin, 1992).
Una caratteristica peculiare dell'emozione del disprezzo, rispetto al disgusto e ad altre emozioni, è invece definita dal ruolo importante svolto dalle reazioni verbali: in particolare queste ultime comprendono la battuta ironico/sarcastica, lo scherno, la derisione e nei casi estremi l'insulto (Garotti, 1982).
A cosa sono legati il disgusto ed il disprezzo?
Rozin e Fallon (1987), gli psicologi che più recentemente hanno studiato l'emozione del disgusto, ritengono che l'oggetto che scatena questa emozione sia quasi sempre di origine animale; può essere un animale vivo e integro (come ad esempio uno scarafaggio), la parte di un essere vivente (come un arto amputato) o pezzi di origine animale (come il sangue o le budella). Inoltre, nonostante si sia rilevato che gli oggetti che ispirano disgusto variano da cultura a cultura più che da individuo a individuo ne esistono alcuni, come le feci, l'urina il muco, che unificano tutti gli abitanti della terra in una repulsione unanime.
L'emozione del disprezzo, al contrario, viene espressa prevalentemente
nelle situazioni di interazione sociale. In particolare, secondo Garotti
(1982), il disprezzo verso un altro individuo è provocato soprattutto da
comportamenti trasgressivi di norme morali, dal tradimento della fiducia, dalla
trasgressione di convenzioni sociali, da comportamenti aggressivi e violenti,
da atteggiamenti immotivati di superiorità, da insincerità e falsità.
Si è anche visto che ci sono differenze significative tra maschi e femmine
nello sperimentare disprezzo: per i maschi il tradimento della fiducia e
atteggiamenti immotivati di superiorità sono le cause scatenanti più frequenti;
viceversa per le femmine le cause scatenanti più rappresentate sono le
trasgressioni di norme morali e la falsità.
Da quanto sin qui riportato emerge come anche le emozioni del disgusto e del disprezzo, emozioni alle quali la letteratura ha concesso una minor attenzione rispetto ad altre, siano estremamente funzionali al benessere dell'individuo e alla preservazione della specie. Infatti, da un lato tra le funzioni più antiche dell'emozione del disgusto c'è quella di impedire che l'organismo entri in contatto, ingerendoli, inalandoli o toccandoli, con alimenti o sostanze potenzialmente dannosi per l'organismo; dall'altro l'emozione più complessa e più evoluta del disprezzo consente all'individuo di modulare, rendendole più funzionali, le proprie relazioni sociali e di confrontarsi, anche nell'immediatezza del vissuto emotivo, con valori e norme di comportamento socialmente condivise.
12°lezione
LA GELOSIA
La gelosia è da sempre argomento privilegiato nell'arte e nella letteratura.
La gelosia è un argomento complesso e non è semplice riassumerlo, ma proveremo a dare alcuni spunti di riflessione.
Da più parti si è cercato di descriverla, di definirla, ma soprattutto di stabilire quali persone vi siano più inclini, quali fatti la producano e quali comportamenti provochi. In questo articolo si cerca di dare una definizione a questo stato emotivo-affettivo complesso e si descrivono alcuni aspetti di due tipi di gelosia: la gelosia romantica e la gelosia da competizione sociale.
Che cos'è la gelosia?
Definire la gelosia è difficile soprattutto perché non si sa bene se sia un'emozione, uno stato d'animo o un sentimento.
Potrebbe essere considerata un'emozione in quanto si presenta in modo brusco e accompagnata da tipiche modificazioni psico-fisiologiche. Tuttavia, è anche un sentimento nel momento in cui permane nel tempo, viene evocata da eventi esterni o rappresentazioni mentali e occupa gran parte del vissuto emotivo e cognitivo dell'individuo.
Il fatto che esistano più tipi di gelosia
distinguibili in base all'oggetto verso cui questo stato emotivo o affettivo è
rivolto complica ulteriormente il problema. Infatti, è diverso essere gelosi di
una cosa ed essere gelosi di una persona. Nel primo caso c'è un desiderio di
esclusività per delle cose che ci appartengono e che non vorremmo cedere in uso
ad altri (gelosia materiale); nel secondo caso domina il timore di
perdere l'affetto, il più delle volte l'affetto esclusivo di una persona (gelosia
romantica).
In ultimo esiste anche una gelosia da confronto sociale che origina dal
desiderio di ottenere un bene che non si ha - l'amore di una persona, un lavoro
o un premio - e dal timore che qualcun altro possa ottenerlo al posto nostro (D'Urso,
1990).
La gelosia è romantica?
In genere le ricerche in ambito psicologico così come la letteratura in senso lato, si sono occupate in prevalenza di questo tipo di gelosia. La gelosia romantica suscita un insieme di sentimenti ed emozioni riguardo la persona amata, il rivale e il sé (D'Urso e Trentin, 1992). Queste emozioni si riassumono in una sorta di ambivalenza nei confronti della persona amata che si traduce in un aumento dell'interesse e del desiderio nei suoi confronti associato a rabbia, ostilità e al timore della perdita. Parallelamente la persona gelosa sperimenta verso il rivale odio e desiderio di annullamento che diventano tanto più forti quanto più il rivale è percepito con caratteristiche positive come la bellezza, l'intelligenza, la cultura ecc. In questo senso una delle cose curiose è costituita dal fatto che il geloso percepisce come più pericoloso un rivale che possiede le caratteristiche positive che lui stesso vorrebbe possedere, piuttosto che un rivale considerato "ideale" dalla persona amata (Schmitt, 1988).
Esistono delle strategie che consentono di far fronte alla gelosia romantica? D'Urso e Trentin (1992) ne riportano tre, ossia:
- rafforzare la fiducia in sé stessi: questo consente di ridurre ansia e aggressività connesse alla gelosia stress
- affinare le proprie capacità: in questo modo si migliora l'immagine di sé e si riducono depressione e rabbia connesse all'idea della possibile perdita della persona amata
- ignorare tutto ciò che concerne la persona amata e il rivale o che è psicologicamente associato ai luoghi, alle occasioni, ai motivi della gelosia
La gelosia come competizione sociale?
Secondo Salovey e Rodin (1984) la caratteristica specifica della gelosia da competizione sociale è l'oggetto del desiderio, che non è mai una persona, ma è sempre una cosa, un tipo di successo o una buona posizione sociale. In realtà è possibile sperimentare questo tipo di gelosia anche verso una persona e competere in ambito sociale per ottenere i suoi favori, la sua attenzione o il suo amore. Il sorgere e l'intensità di questo tipo di gelosia variano a seconda dell'importanza che l'individuo attribuisce alla meta ambita, dell'identità e della valenza emotiva degli altri concorrenti. In base ad una serie di esperimenti Mikulincer, Bizman e Aizemberg (1989) hanno trovato che la gelosia da confronto sociale aumenta quando:
- si attribuisce prevalentemente a sé stessi la responsabilità di un confronto sfavorevole o di un proprio fallimento
- si considera lo scacco almeno in parte controllabile
- si ritiene che lo sfavore nel confronto dipenda da condizioni relativamente stabili nel tempo e soprattutto relative alla propria personalità
Chi sono le persone gelose?
In genere le persone gelose sono descritte come insicure, ansiose, possessive, invidiose, sospettose, irrazionali, con una scarsa stima di sé.
Non sembra ci siano differenze tra i sessi rispetto all'intensità della gelosia (Bringle e Buunk, 1985), anche se si rilevano vistose diversità rispetto ai comportamenti associati.
Da questo punto di vista gli uomini sono più inclini delle donne ad assumere iniziative aperte in caso di tradimento, cercano cioè di discutere il problema, di affrontare il rivale o aggredire la compagna. Al contrario le donne sembrano esternalizzare meno la gelosia e i comportamenti connessi soffrendo però maggiormente di intensi sentimenti negativi, quali disperazione, depressione e di malattie psicosomatiche (D'Urso e Trentin, 1992). Non sembra invece ci siano differenze tra i sessi rispetto agli aspetti cognitivi messi in atto.
Pines e Aronson (1981) hanno infatti accertato che la reazione più comune a uomini e donne è quella di rimuginare tormentosamente sull'accaduto e questo avviene con frequenza, durata e intensità equivalente nei due sessi.
13°lezione
ALESSITIMIA ED EMPATIA
Molti dei primi esponenti della medicina psicosomatica ritenevano che i conflitti emotivi inconsci giocassero un ruolo molto importante come cause dei disturbi o delle malattie psicosomatiche.
Alcuni di essi, in base ad osservazioni cliniche e ai colloqui avuti con i loro pazienti, ipotizzarono che fosse un disturbo nella capacità di esprimere le emozioni a predisporre le persone alle malattie psicosomatiche classiche.
Paul MacLean (1949, 1954, 1977), ad esempio, notò che molti
pazienti psicosomatici mostravano un'evidente incapacità intellettuale a
verbalizzare le proprie emozioni e ipotizzò che le emozioni disturbanti invece
di essere collegate al neo-cortex (il "cervello verbale") e trovare
espressione nell'uso simbolico delle parole, avessero un'espressione immediata
nelle vie autonome e venissero tradotte in una specie di "linguaggio
organico".
Allo stesso modo Jurgen Ruesch (1948)
osservò sia un analogo disturbo dell'espressione verbale e simbolica nei
pazienti psicosomatici sia un insieme di caratteristiche comportamentali e
psicologiche che facevano pensare ad una personalità infantile.
Tali caratteristiche erano ad esempio l'arresto e il deterioramento dell'apprendimento sociale, una tendenza a usare l'azione fisica diretta o canali corporei di espressione, dipendenza e passività, modi infantili di pensare, il ricorso all'imitazione, una coscienza morale estremamente rigida, aspirazioni elevate e irrealistiche ed un grado eccessivo di conformismo sociale.
Marty e de M'Uzan (1963) coniarono il termine di pensée opératoire (pensiero operatorio) per descrivere un tipo di pensiero incapace di produrre fantasie, senza immaginazione, estremamente utilitaristico, preoccupato dei minimi particolari degli eventi esterni e molto aderente alla realtà, e ipotizzarono che questo tipo di pensiero fosse tipico di una specifica personalità psicosomatica.
A questo proposito Sifneos coniò il termine "alessitimia"
per indicare un disturbo specifico nelle funzioni affettive e
simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo dei
pazienti psicosomatici.
Attualmente l'alessitimia, dopo un primo periodo di notevoli controversie, non
è considerata la sola, ma una delle molteplici possibili situazioni generali di
insorgenza o uno dei fattori di rischio che sembrano accrescere la
suscettibilità alla malattia.
Infatti occorre precisare che non tutti i pazienti psicosomatici esibiscono
chiari elementi alessitimici e non tutti i medici psicosomatici hanno accettato
il concetto di alessitimia. Inoltre, quest'ultima non è considerata un fenomeno
del tipo "tutto o nulla" e ogni persona sembra avere la capacità di
accedere ad uno stile di comunicazione relativamente asimbolico, tanto che le
caratteristiche alessitimiche sono state riscontrate anche in pazienti con
disturbi da uso di sostanze e disturbi da stress post-traumatico, in pazienti
con gravi disturbi affettivi o depressioni mascherate che spesso si presentano
ai medici accusando disturbi fisici. Inoltre, l'alessitimia è stata descritta
come un fenomeno secondario nei pazienti in dialisi e in quelli che hanno
subito un trapianto, oltre a quelli in pericolo di vita che si trovano nei
reparti di terapia intensiva.
In genere gli individui alessitimici oltre ad avere un pensiero simbolico
nettamente ridotto o assente mostrano anche una sorprendente difficoltà a
riconoscere e descrivere i loro sentimenti e a discriminare tra stati emotivi e
sensazioni corporee.
Capita ad esempio che tali persone abbiano esplosioni di collera o di pianto incontrollato, ma quando vengono interrogate sui motivi di queste manifestazioni sono incapaci di descrivere quello che provano.
Anche la rigidità nei movimenti e la mancanza di movimenti espressivi del volto di queste persone tradiscono un funzionamento emotivo ridotto.
In genere le persone alessitimiche sembrano ben adattate da un punto di vista sociale nonostante manchi loro non solo la capacità entrare in contatto con la propria realtà psichica e con i propri vissuti interiori ma anche la fondamentale capacità di sintonizzarsi sui sentimenti e vissuti altrui, elementi che rendono il loro buon adattamento sociale solo apparente. Inoltre, queste persone tendono a stabilire relazioni interpersonali fortemente dipendenti oppure preferiscono stare da soli ed evitare gli altri.
Come si sviluppa l'alessitimia?
Probabilmente non esiste un'unica spiegazione sulle cause di un fenomeno tanto complesso. Oltre che da fattori genetici, neurofisiologici e intrapsichici, gli stili di comunicazione sono influenzati da fattori socioculturali, dall'intelligenza e dai modelli familiari di conversazione.
Per esempio, Leff (1973) ha trovato che nei paesi sviluppati le persone mostrano una maggiore differenziazione degli stati emotivi rispetto a coloro che vivono in paesi in via di sviluppo e che alcune lingue impongono limitazioni all'espressione delle emozioni.
Secondo McDougall (1982)
l'alessitimia è una difesa straordinariamente forte contro il dolore psichico, mentre Krystal (1979,
1982-1983) invece di concettualizzare l'alessitimia come una difesa, la attribuisce ad un arresto dello sviluppo affettivo a seguito di un
trauma infantile, o a una regressione nella funzione
affettivo-cognitiva dopo un trauma catastrofico nella vita adulta.
Sono state proposte anche alcune teorie neurofisiologiche per l'origine
eziologica dell'alessitimia.
Si è già vista l'ipotesi di MacLean secondo cui i sintomi fisici dei pazienti alessitimici sono dovuti al
fatto che le emozioni vengono incanalate direttamente negli organi corporei
attraverso le vie neuroendocrine e autonome. Nemiah (1975, 1977) ha approfondito questa posizione sostenendo che l'alessitimia è provocata da un difetto neurofisiologico che influenza la modulazione da parte del corpo striato dell'input
proveniente dal sistema limbico e diretto al neocortex.
Inoltre gli studi sulla specializzazione emisferica, compreso il modo in cui il
cervello integra il linguaggio affettivo e propositivo, hanno portato all'idea
che l'alessitimia sia dovuta ad una disfunzione dell'emisfero destro o ad una
carenza nella comunicazione interemisferica.
Tale ipotesi sembra avvalorata dall'osservazione di Hoppe (1977; Hoppe e Bogen, 1977) della comparsa di caratteristiche alessitimiche in pazienti con
"cervello scisso" i quali
riferiscono scarsità di sogni e fantasie e mostrano un deterioramento della
funzione simbolica.
Inoltre, come hanno dimostrato Weintraub e
Mesulam (1983), un danno precoce all'emisfero destro può
interferire seriamente con l'acquisizione di capacità per le quali
quell'emisfero è ritenuto specializzato. Essi sostengono infatti che "come
l'emisfero sinistro controlla lo sviluppo della competenza linguistica, così
l'integrità dell'emisfero destro potrebbe essere essenziale all'emergere di
capacità interpersonali e di quella che Hymes (1971) ha definito competenza comunicativa".
Pertanto una carente funzionalità dell'emisfero destro
potrebbe spiegare non solo la difficoltà dei pazienti alessitimici a
riconoscere e descrivere le loro emozioni, ma anche la loro minore capacità
empatica.
Cosa si intende per empatia?
Se l'alessitimia implica l'incapacità o
l'impossibilità di percepire le proprie e le altrui emozioni, l'empatia è al
contrario quell'abilità che consente alle persone di entrare in sintonia con i
propri e gli altrui stati d'animo. Non a caso tale abilità si basa
sull'autoconsapevolezza: quanto più si è aperti verso le proprie emozioni,
tanto più abili si è nel leggere i sentimenti altrui. Questa capacità consente
di capire come si sente un'altra persona ed entra in gioco in moltissime
situazioni, da quelle tipiche della vita professionale a quelle della vita
privata.
La capacità empatica permette di leggere e capire non solo le emozioni che
le persone esprimono a parole, ma anche quelle che, più o meno consapevolmente
sono espresse con il tono di voce, i gesti, l'espressione del volto e altri
simili canali non verbali.
Come si sviluppa l'empatia?
È possibile rintracciare il germe dell'empatia sin dalla prima infanzia. In effetti si è visto che dal giorno stesso della nascita i neonati sono turbati dal pianto di un altro bambino e addirittura i bambini intorno all'anno d'età imitano la sofferenza altrui, probabilmente per meglio comprendere ciò che l'altro sta provando.
Titchener negli anni venti nominò questa abilità "mimetismo
motorio" e secondo tale autore essa è il precursore dell'empatia.
Inoltre, sembra che alla base dell'empatia ci siano i processi
di sintonizzazione-desintonizzazione che caratterizzano le prime fasi del
rapporto madre-figlio e che consentono al bambino di sentirsi compreso. Non a
caso la prolungata assenza di sintonia emozionale tra genitori e figli
impone al bambino un costo enorme in termini emozionali. Quando un genitore
non riesce mai a mostrare alcuna empatia con una particolare gamma di emozioni
del bambino - gioia, pianto, bisogno di essere cullato - questi comincia ad
evitare di esprimerle e forse anche di provarle. In questo modo
presumibilmente, numerose emozioni cominciano ad essere cancellate dal
repertorio delle relazioni intime soprattutto se, anche in seguito durante
l'infanzia, questi sentimenti continuano ad essere copertamente o apertamente
scoraggiati.
Alcuni studiosi hanno suggerito che in aggiunta ad una disfunzione organica responsabile dell'alessitimia esista uno specifico ambiente sociale-evolutivo che inibisce l'espressione emotiva, ipotesi che sembra per altro confermata dalla presenza di un numero maggiore di uomini alessitimici rispetto alle donne e da una maggiore propensione di queste ultime ad essere empatiche. Infatti, agli uomini più che alle donne si insegna ad esprimere poco le proprie emozioni e a sviluppare capacità legate più alla vita pratica, lavorativa che non alla sfera affettiva.
Secondo Goleman (1995) l'empatia e l'autocontrollo sono due competenze sociali che aiutano l'individuo a costruirsi una vita relazionale ricca ed emotivamente soddisfacente, la quale, è ormai noto, influenza positivamente anche il benessere psico-fisico della persona.
14°lezione
ALLA RICERCA DELLA FELICITA'
Le emozioni sono componenti
fondamentali della nostra vita, da esse, sovente, traiamo gli stimoli che
muovono le nostre giornate. Seppure ogni singola emozione sia importante e
permetta a chi la sperimenta di sentirsi vivo, l'uomo è soprattutto alla
ricerca di quelle sensazioni ed emozioni che lo facciano star bene e lo appaghino,
in una parola è alla ricerca di quello stato emotivo di benessere chiamato
felicità.
Quest'ultima è data da un senso di appagamento generale e la sua intensità
varia a seconda del numero e della forza delle emozioni positive che un
individuo sperimenta.
Questo stato di benessere, soprattutto nella sua forma più intensa - la gioia - non solo viene esperito dall'individuo, ma si accompagna da un punto di vista fisiologico, ad una attivazione generalizzata dell'organismo.
Molte ricerche mettono in luce come
essere felici abbia notevoli ripercussioni positive sul comportamento, sui
processi cognitivi, nonché sul benessere generale della persona. Ma chi
sono le persone felici?
Gli studi che hanno cercato di rispondere a questa domanda evidenziano come la
felicità non dipenda tanto da variabili anagrafiche come l'età o il sesso, né
in misura rilevante dalla bellezza, ricchezza, salute o cultura. Al contrario sembra
che le caratteristiche maggiormente associate alla felicità siano quelle
relative alla personalità quali ad esempio estroversione, fiducia in se stessi,
sensazione di controllo sulla propria persona e il proprio futuro.
Le emozioni: IL COLORE DELL'ESISTENZA
Le emozioni sono componenti
fondamentali della nostra vita, danno colore e sapore all'esistenza, anche se,
in una civiltà come quella occidentale impostata sul primato della ragione,
spesso sono considerate con sospetto e timore. Del resto, non potrebbe
essere altrimenti: infatti se la ragione promette all'uomo il dominio su se
stesso e le cose, le emozioni spesso producono turbamento e conflitto, non sono
mai totalmente controllabili e a volte ci trascinano a dire o fare cose di cui,
una volta cessato l'impeto emotivo, ci si pente.
Eppure, sono le emozioni che ci fanno gustare la vita ed è proprio dalle
emozioni, piccole o grandi che siano, che l'individuo spera di ricavare nuovi
stimoli che muovano le sue giornate. Del resto come si potrebbe dire di vivere
appieno se non si sperimentassero mai la gioia, il tremito dello smarrimento o della paura, l'impeto della passione,
l'abbandono alla nostalgia, il peso e la disperazione provocate dalla
sofferenza?
Tuttavia, seppur ogni singola emozione sia importante e permetta a chi la
sperimenta di sentirsi vivo, l'uomo è soprattutto alla ricerca di quelle
sensazioni ed emozioni che lo facciano star bene e lo appaghino, in una parola
è alla ricerca di quello stato emotivo di benessere chiamato felicità.
FELICITA': alcune definizioni
Il tema della felicità appassiona da sempre l'umanità: scrittori, poeti, filosofi, persone comuni, ognuno si trova a pensare, descrivere, cercare questo stato di grazia. Per tentare di definire questa condizione alcuni studiosi hanno posto l'accento sulla componente emozionale, come il sentirsi di buon umore, altri sottolineano l'aspetto cognitivo e riflessivo, come il considerarsi soddisfatti della propria vita. La felicità a volte viene descritta come contentezza, soddisfazione, tranquillità, appagamento a volte come gioia, piacere, divertimento.
Secondo Argyle (1987), il maggiore studioso di questa emozione, la felicità è rappresentata da un senso generale di appagamento complessivo che può essere scomposto in termini di appagamento in aree specifiche quali ad esempio il matrimonio, il lavoro, il tempo libero, i rapporti sociali, l'autorealizzazione e la salute.
La felicità è anche legata al numero e all'intensità delle emozioni positive che la persona sperimenta e, in ultimo, come evento o processo emotivo improvviso e piuttosto intenso è meglio designata come gioia. In questo caso è definibile come l'emozione che segue il soddisfacimento di un bisogno o la realizzazione di un desiderio e in essa, accanto all'esperienza del piacere, compaiono una certa dose di sorpresa e di attivazione (D'Urso e Trentin, 1992).
Cosa succede quando siamo felici?
Tutti noi, in misura più o meno
accentuata, proviamo emozioni, in un certo senso le agiamo a livello di
comportamenti più o meno visibili e consapevoli, le condividiamo con gli altri
parlando o scrivendo di esse, alcuni riescono perfino ad immortalarle nelle
opere d'arte.
Ma cosa succede dentro e fuori di noi quando siamo felici?
Alcuni autori (Maslow, 1968; Privette, 1983) riportano che le sensazioni esperite con più frequenza dalle persone che si trovano in una condizione di felicità o di gioia sono quelle di sentire con maggiore intensità le sensazioni corporee positive e con minore intensità la fatica fisica, di sperimentare uno stato di attenzione focalizzata e concentrata, di sentirsi maggiormente consapevoli delle proprie capacità.
Spesso le persone felici si sentono più libere e spontanee, riferiscono una sensazione di benessere in relazione a se stesse e alle persone vicine e infine descrivono il mondo circostante in termini più significativi e colorati.
Inoltre le persone che provano emozioni positive, quali ad esempio gioia e felicità, a livello fisiologico presentano un'attivazione generale dell'organismo che si manifesta con un'accelerazione della frequenza cardiaca, un aumento del tono muscolare e della conduttanza cutanea e infine una certa irregolarità della respirazione.
In ultimo chi è felice sorride spesso. In effetti il sorriso, sovente accompagnato da uno sguardo luminoso e aperto, è la manifestazione comportamentale più rappresentativa, inconfondibile e universalmente riconosciuta della felicità e della gioia.
Chi sono le persone felici?
Probabilmente chiunque, passando in
rassegna le persone che gli sono vicine, è in grado di identificare tra tutte
un amico, un parente o un conoscente che è considerato da tutti la persona
felice per antonomasia, la persona che non perde il buonumore anche quando deve
affrontare delle situazioni difficili o fastidiose, quella che ha sempre la
battuta pronta e che sembra serena in ogni circostanza.
Ma la felicità da cosa dipende? Esistono delle caratteristiche
dell'individuo che lo rendono maggiormente permeabile a sentimenti di felicità
e gioia piuttosto che a sentimenti negativi?
E' molto difficile, probabilmente impossibile, rispondere in modo
sufficientemente accurato a tali quesiti. Tuttavia le ricerche sulla felicità
mettono in luce come essere più o meno felici non dipende in modo diretto da
variabili anagrafiche come l'età o il sesso, né in misura rilevante dalla
bellezza, ricchezza, salute o cultura. Al contrario sembra che le
caratteristiche maggiormente associate alla felicità siano quelle relative alla
personalità e in particolare quelle relative all'estroversione, alla fiducia in
se stessi, alla sensazione di controllo su se stessi e il proprio futuro (D'Urso
e Trentin, 1992).
Secondo Argyle e Lu (1990) la persona estroversa è più felice
perché ha più rapporti sociali, fa amicizie più facilmente, partecipa ad un
maggior numero di attività pubbliche e collettive dove trova maggiori motivi di
interesse e divertimento. Inoltre una persona felice è anche una persona che
sta bene con se stessa e che ha fiducia nelle sue capacità e percepisce una
fondamentale congruenza tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere. In sostanza,
più le persone riescono ad accettarsi per quello che sono, con tutti i loro
pregi e i loro limiti, più sono felici. Analogamente, quanto più una persona
ritiene di poter ragionevolmente controllare gli eventi che gli accadono nella
sua vita affettiva, sociale, lavorativa, più è felice, e in particolar modo, è
più felice di chi si considera in balia del caso o degli altri.
Felicità e benessere sono possibili?
Gli stati d'animo positivi possono
influire in modo considerevole sia sul comportamento sia sui processi di
pensiero rendendoli maggiormente adeguati e
funzionali alle situazioni di vita dell'individuo. E' poi ovvio che tutto
questo si ripercuota positivamente sullo star bene dell'individuo con se stesso
e gli altri.
In effetti quando le persone sono di buon umore pensano alle cose in modo molto
diverso rispetto a quando sono di cattivo umore. Ad esempio, si è trovato che
il buon umore porta a descrivere in modo positivo gli eventi sociali a
percepirsi come socialmente competenti, a provare sicurezza in se stessi e
autostima (Bower, 1983). Inoltre quando si è felici si tende a valutare
più positivamente la propria persona: ci si sente pieni di energia, si
considerano meno gravi i propri difetti e si pensa meno alle proprie
difficoltà. In ultimo, si è visto che più si è felici più si curano e si
allargano i propri interessi sociali e artistici, si pone maggiore attenzione
alle questioni politiche generali, ci si sente più inclini ad accettare dei
compiti nuovi e stimolanti, anche se difficili (Cunningham, 1986;
1988).
Da questo punto di vista non c'è da stupirsi che uno stato emotivo positivo
induca all'ottimismo: Mayer e Volanth (1985), infatti, hanno
trovato una correlazione diretta tra grado di buonumore e probabilità stimata
di eventi positivi.
Essere felici induce anche ad essere più audaci. A questo proposito, Isen
e Patrick (1983) hanno messo in luce come la gioia tendenzialmente porti
a sottovalutare la gravità dei rischi e quindi porti ad agire in modo meno
prudente.
In ogni caso si è anche visto che questo accade solo se la decisione da
prendere non comporta dei rischi seri. In presenza di uno stato d'animo
positivo, non solo il mondo sembra più colorato e desiderabile e le azioni più
facili, ma anche le persone che ci circondano sembrano migliori.
E' forse per questo che molti esperimenti rilevano come le persone felici siano
più disponibili, generose e altruiste e provochino negli altri una maggior
simpatia.
In ultimo, per quanto riguarda gli aspetti cognitivi, si è visto che il buon
umore ha degli effetti positivi sulle capacità di apprendimento e di memoria e
sulla creatività: in sostanza quando si è felici si apprende con più facilità,
in misura maggiore e in modo più duraturo (Ellis, Thomas e Rodriguez,
1984; Ellis, Thomas McFarland e Lane, 1985) e inoltre si è
maggiormente creativi nella soluzione dei problemi.
FELICITA': istruzioni per l'uso
A questo punto, visti i vantaggi che
essere felici comporta, ci si potrebbe chiedere se esistono delle strategie che
ci aiutino a sentirci felici o a recuperare il buonumore quando lo si è perso.
In questo senso D'Urso e Trentin (1992) riportano una serie di
attività e atteggiamenti che si accompagnano o favoriscono uno stato di
benessere.
Tali attività o atteggiamenti sono:
- non attribuire interamente a noi stessi la responsabilità degli eventi spiacevoli che ci capitano
- stare in compagnia di persone felici
- fare esercizio fisico
- non confrontare la nostra condizione (salute, bellezza, ricchezza ecc.) con quella degli altri
- individuare quello che ci piace nel nostro lavoro e valorizzarlo
- curare il corpo e l'abbigliamento
- riconoscere i legami tra cattivo umore e cattivo stato di salute: spesso è il malessere fisico, più che altri fattori oggettivi, a determinare un cattivo umore
- dimensionare le nostre aspettative alle capacità e alle opportunità medie della situazione
- aiutare le persone a cui piace essere aiutate
- non fare progetti a lunga scadenza
- frequentare le persone che ci hanno fatto dei piaceri e alle quali abbiamo fatto dei piaceri
- non trarre conclusioni generali dagli insuccessi
- fare una lista delle attività che personalmente ci fanno stare di buon umore e praticarle
DISTURBI EMOZIONALI
Piccolo accenno ai possibili disturbi emozionali: essi hanno a che fare con aspetti più o meno sintomatologici o nel modo di provare o nel modo di esprimere le emozioni. Per es. la rabbia incontrollata è un disturbo emozionale che rientra nella sfera dei disturbi antisociali.
Un altro disturbo delle emozioni è la manifestazione eccessiva dei propri vissuti emotivi, presente nei disturbi isterici ed istrionici : c'è una rappresentazione dell'emozione quasi teatrale, in cui l'emozione viene vissuta ed espressa quasi senza filtri.
L'alexitimia è un altro disturbo in cui l'individuo non riesce a provare e ad esprimere l'emozione. E' un disturbo più frequente negli adulto ed è come se si sviluppasse una corazza simile a quella dell'autismo.