Aspetti affettivi nell'anziano

L'invecchiamento dell'individuo si presenta come un processo continuo, a volte sovrapponibile a quelli di crescita e di riproduzione, il cui inizio non è delimitabile ad un periodo particolare della vita. L'invecchiamento non è un processo tutto/nulla, né è uguale per tutti.

In base a quella che è definita eterocronia dell'invecchiamento, non solo è possibile trovare delle differenze fra individuo e individuo, ma anche all'interno dello stesso individuo gli organi e le funzioni non vengono interessati contemporaneamente ed in maniera uniforme dai processi di invecchiamento. Infatti, mentre nei soggetti giovani i parametri biologici tendono a convergere verso un valore medio, negli anziani i valori tendono ad essere fortemente variabili e perciò è più corretto parlare di un range con ampia dispersione dei dati.Se è innegabile che alcune modificazioni a livello cerebrale avvengano, è anche vero che il cervello dell'anziano presenta meccanismi di compenso che tentano di recuperare il deficit indotto dallo spopolamento neuronale (cosiddetta sinaptogenesi). Ciò spiega come le funzioni complessive del cervello di un individuo anziano sano siano, a dispetto delle alterazioni istologiche e biochimiche, solo moderatamente compromesse.Diverse ricerche hanno evidenziato che l'anziano può mantenere la sua efficienza psichica globale se sfrutta le risorse residue, ad esempio mediante l'allenamento mentale, e se opportunamente motivato.Perché ciò avvenga però non si può prescindere dall'importanza dell'affettività, del riconoscimento del valore dell'anziano all'interno del nucleo sociale in cui vive. Gli affetti giocano un ruolo essenziale nell'agire quotidiano, nell'essere al mondo, nell'avere un posto nel mondo.Il timore più grande per l'anziano non è la morte, piuttosto la malattia, l'abbandono, il disprezzo delle persone con cui ha sempre vissuto, il rifiuto da parte del suo nucleo familiare, il senso di fragilità in un mondo potenzialmente ostile. Tutto ciò lo porta spesso a vivere in una condizione di ansia continua.Il pericolo più grande per lui è l'isolamento affettivo-relazionale. Questo può portarlo ad una minore motivazione nell'affrontare la vita, allo sviluppo di disturbi dell'umore e ad un minore uso, e conseguente perdita, delle abilità cognitive.

Benché la personalità sia un fattore psicologico relativamente "stabile" nel tempo, almeno in condizioni di normale invecchiamento fisiologico, durante la senescenza anche gli affetti e le emozioni subiscono degli "aggiustamenti.

L'affettività tende a modificarsi sia quantitativamente, sia qualitativamente. Innanzitutto si riduce l'intensità soggettiva, rispetto a contenuti che in precedenza suscitavano reazioni intense; ne consegue un'attenuazione dell'aspetto espressivo. In secondo luogo, l'affettività si concentra su poli circoscritti dal momento che, piuttosto che da condizioni esterne, l'anziano è coinvolto da quelle personali: in particolare dal suo benessere fisico e psichico e dal suo status economico e sociale. Il risultato finale è il prevalere di un egocentrismo sempre più accentuato.

Mentre cioè la personalità del giovane è di tipo prevalentemente centrifugo, proiettata verso l'esterno e verso il futuro, la personalità dell'anziano è centripeta, ossia rivolta prevalentemente al proprio Io, con tutto il carico di ricordi, esperienze e sentimenti che lo caratterizza. Gli investimenti affettivi si rivolgono al proprio presente e al proprio corpo che, come già segnalato, può diventare oggetto di preoccupazioni ipocondriache o il tramite attraverso cui comunicare all'esterno per attirare le attenzioni altrui.

Questo tuttavia non significa che per l'anziano i legami affettivi e le relazioni interpersonali siano insignificanti; al contrario, l'anziano è in grado di amare e ha bisogno di sentirsi amato, di ricevere attenzioni e affetto. È noto infatti come, a qualsiasi età, rapporti affettivi soddisfacenti favoriscano un'attività psichica globalmente efficiente e una adeguata motivazione alla vita .

Anche la sessualità continua a rappresentare in età senile un importante aspetto della vita affettiva. Aver perso, o ridotto in modo consistente la propria capacità procreativa non costituisce motivo di rinuncia all'atto sessuale, che continua a rappresentare importante espressione psico-fisica di una relazione matura basata sull'amore. Le modificazioni fisiologiche, tanto funzionali quanto anatomiche, che si verificano in senescenza non sono per lungo periodo tali da rendere l'anziano inidoneo ad attività sessuale; tant'è che, secondo recenti statistiche, il rapporto sessuale coniugale tra le persone anziane è abbastanza frequente.

Tra i fattori che determinano una diminuzione o una sospensione del rapporto sessuale vi sono motivazioni psicologiche o relazionali. Basti pensare all'alto numero di anziani che sono rimasti soli, in seguito alla morte del coniuge. Sia per questa categoria di soggetti, sia per gli anziani che ancora vivono in coppia possono avere un importante effetto inibente i pregiudizi e gli stereotipi culturali che vedono l'anziano come asessuato, privo di desideri sessuali, immerso nella "pace dei sensi". Gli effetti sugli anziani possono essere quelli della vergogna e del senso di colpa per avere ancora esigenze e pulsioni del genere.

L'insorgenza di alcuni disturbi sessuali, quali l'impotenza secondaria, l'incapacità eiaculatoria, il vaginismo, può essere legata a tali vissuti, o a una reazione ansiosa e fobica di fronte alle modificazioni fisiologiche indotte dall'età (erezione più lenta e meno vigorosa, minore lubrificazione vaginale) che, se serenamente accettate, non costituiscono ostacolo alla realizzazione dell'atto sessuale.

D'altra parte, molte persone anziane finiscono con il rinunciare a una vita sessuale per evitare possibili insuccessi, competizioni e ogni altra forma di frustrazione e di confronto vissuto come inferiorizzante. Questo dato vale per le coppie di coniugi anziani, ma ancor più per gli anziani rimasti soli, per i quali la ricerca di un nuovo compagno e la paura di deluderlo possono assumere valenze molto ansiogene.

Le modificazioni dell'affettività e del controllo sulle emozioni si possono sommare con quelle cognitive che vanno autonomamente deteriorandosi o aggravare distorsioni cognitive, a loro volta correlate al decadimento fisico e alla malattia. Il tutto si articola in un sinergismo negativo che conduce a una inevitabile modificazione delle preesistenti abilità sociali e dell'efficienza dell'età matura.

È vero che questo progressivo infragilimento della persona anziana, entro certi limiti, come abbiamo visto, può essere positivamente compensato dalla possibilità di attingere a risorse ancora attive e attivabili, ma è altrettanto vero che il discorso finora fatto deve tenere conto dell'impatto cui l'anziano va incontro quando si trova a dovere affrontare l'immagine, il ruolo, la collocazione che gli viene oggi riservata nella cultura e nella struttura sociale. Ed è di ciò che mi occuperò nel paragrafo che segue.

Ci sono dei cicli di vita inevitabili, che provocano crisi personali, non sostanzialmente differenti dalle crisi precedenti.

Erik Erikson ha molto insistito sui diversi cicli della vita, a partire dalla prima infanzia, che mo­dificano le nostre identificazioni. In fondo, il pro­blema dell'invecchiamento si pone per noi fin dall'inizio: a cominciare dall'infanzia, dobbiamo affrontare il problema dell'alterazione, cioè, alla lettera, del diventare un altro, e questo non av­viene senza dolore e difficoltà. Non per nulla, la maggior parte delle ricerche che studiano l'adat­tamento all'invecchiamento e l'equilibrio psicolo­gico degli anziani insistono sul ruoto della perso­nalità antecedente («Si invecchia come si è vis­suto», diceva Ajuriaguerra). Le crisi della senescenza si distinguono soprattutto per la loro in­tensità, tanto che si potrebbero paragonare alle crisi dell'adolescenza. Ho precisato «le» crisi della senescenza, perché è chiaro che la vec­chiaia non è uno stato uniforme, ma un processo continuo su cui sì possono inserire diverse crisi: ambiente di vita, menopausa, partenza dei figli, pensionamento, malattia, vedovanza, dipendenza.

Perché si parla tanto di crisi della senescenza allo stesso modo in cui si parla dell'adolescenza e in cosa si somigliano? Due caratteristiche ren­dano queste crisi difficili e a volte dolorose:

1. L'immagine di sé, fondamento del nostro narcisismo primario, si modifica profondamente. Nelle persone che invecchiano, come negli ado­lescenti, il corpo si modifica e la percezione di sé ne è turbata. Ora noi sappiamo come la perdita dell'immagine di sé può essere all'origine della angoscia e della sensazione di vuoto. C'è tutto un lavoro di destrutturazione e poi di ristrutturazio­ne psichica; in sostanza si deve realizzare una elaborazione di «lutto», un lutto della propria immagine. L'invecchiamento implica un lavoro psichico: c'è una elaborazione dell'invecchia­mento, come c'è l'elaborazione del «lutto», e non sono né il lutto né l'invecchiamento ad essere patologici, bensì l'arresto dell'elaborazione a causa del rifiuto, della repressione, ecc.;

2. Non si modifica solo l'immagine di sé, ma viene meno il significato, l'ideale dell'io, veico­lato dal mito personale e collettivo... L'elaborazio­ne del lutto che ho ricordato può avvenire solo attraverso la simbolizzazione, la formazione di un nuovo linguaggio personale.

Ora, anche in questo caso, troviamo un punto comune con l'adolescenza: manca un discorso sociale sull'invecchiamento, o è molto limitato. Come per l'adolescente, c'è un vuoto simbolico, legato in parte al fatto che tale situazione, anche perché dura più d'una volta, è relativamente nuo­va per la nostra società, in parte anche ad una povertà simbolica, a un'elusione del problema del senso che provoca un ripiegamento narcisistico sul corpo. Non per niente la risposta offerta alle inquietudini e alle domande degli adolescenti e degli anziani, è molto spesso una risposta me­dica.

Con Jean Tritschler, noi pensiamo che i «i vec­chi delle nostre società vivano due drammi che si sviluppano attorno a due concetti ambigui ma assai diffusi nella società: la nozione di utilità e quella di indipendenza». Noi sentiamo continua­mente lamentele di vecchi o osservazioni su di essi che riguardano la loro inutilità o la loro per­dita di indipendenza. Così si misura tutto il peso delle immagini e degli ideali sociali che riducono l'utilità allo scambio materiale e il processo di personalizzazione a una ricerca d'indipendenza. Chi può dire che l'altro o noi stessi siamo inutili, se non in una riduzione in cui il fare prende il sopravvento sull'essere, l'immagine sul divenire? Quanto al mito della nostra indipendenza, non dobbiamo ammettere di essere ben ciechi di fronte alla realtà della nostra interdipendenza, al punto di tentare una fuga in avanti?

Nei confronti delle persone anziane, sono sem­pre presenti le tentazioni di riduzione, di ogget­tivazione e di esclusione. Per evitare di ricono­scere la nostra fragilità, la nostra debolezza, sia­mo tentati incessantemente di ritrovare un senti­mento di dominio in un rifiuto più o meno masche­rato da buone intenzioni. Ad esempio, volendo far morire i vecchi dignitosamente prima che perdano la coscienza, dimenticando che la dignità sta nello sguardo, nella tenerezza e nella speran­za di chi li accompagna... Queste tentazioni sono universali, e ciò significa che gli anziani, i loro parenti e i loro curanti hanno bisogno della soli­darietà di tutti, della loro attenzione e del loro sostegno.

Spetta a noi specialisti, prima che ad ogni altro, domandarci quale ruolo o funzione possa essere prospettabile per l'anziano in questa società che muta così celermente.

L'invecchiamento è un processo che interessa tutti gli organismi viventi e che comporta modificazioni biologiche. Nell'uomo si assiste a tali modificazioni del corpo e delle sue funzioni, seguite da un processo di adattamento psicofisico, già prima dei 30 anni; il fenomeno è graduale e progressivo, anche se variabile per ogni individuo e interessa, come ovvio, anche la sua psiche. La disciplina che studia l'invecchiamento dal punto di vista psicologico è la "psicologia gerontologica", da non confondere con la "psicologia geriatrica", che si occupa invece della psicopatologia dell'invecchiamento.
La mia attenzione è rivolta principalmente alla "psicologia gerontologica" perché descrive meglio i miei interessi, che riguardano tutto il mondo dei vecchi e non, come lascia intendere il termine "geriatria" (dal greco geros = vecchio e iatros = medico), ai soli vecchi ammalati.Non dimentichiamo infatti che, se è vero che i vecchi sono portatori di molteplici patologie, è anche vero che un numero crescente di persone arriva alla vecchiaia in condizioni, se non ottime, almeno buone. Cresce quindi il numero di coloro che sono tutt'altro che dei casi di patologia medica. La vecchiaia non è una malattia, è uno stadio della vita. Uno stadio della vita che va valorizzato, abbandonando il tradizionale modo di vedere i vecchi (o saggi o pazzi). Modo di vedere ormai anacronistico e perdente. Ma l'invecchiamento non è solo un problema dell'individuo, è anche un fenomeno sociale in grado di mutare profondamente a seconda della cornice spazio-temporale in cui lo inseriamo. Gli aspetti psicologici e clinici hanno quindi senso, solo e solamente, se inseriti in un contesto storico e sociale, e questo è lo scopo di questo incontro.
L'esame della realtà sociale attuale dimostra, infatti, che in essa si trovano intimamente inseriti molteplici meccanismi emarginanti. Le tumultuose trasformazioni sociali degli ultimi decenni hanno portato in sé, accanto a indubbi benefici, anche effetti sfavorevoli che si sono ripercossi soprattutto sulle fasce di popolazione più deboli, tra le quali vi sono tipicamente gli anziani. Il radicale cambiamento dell'economia, negli anni del dopoguerra, ha accentuato sempre più il passaggio da un tipo di lavoro prevalentemente agricolo-artigianale a quello di tipo industriale. Ha segnato, cioè, la fine di un lavoro legato in buona parte alla capacità inventiva ed all'iniziativa individuale e lo ha sostituito con un lavoro spesso ripetitivo, monotono, meccanizzato, vincolato maggiormente ad un concetto esasperato di produttività e di efficienza e, molto spesso, a quello di carriera, concezione la quale assume inevitabilmente un significato competitivo soprattutto a livello sociale: maggiore efficienza produttiva, maggiore ricchezza, maggiore consumo di beni, maggiore valore e prestigio nella scala sociale. Non esiste più un lavoro in cui abbia fondamentale importanza l'esperienza acquisita durante un lungo tirocinio, ma solo la conoscenza operativa e molto approfondita di pochi dettagli tecnici e che, quindi, non ha bisogno di una trasmissione "sapienziale", ma solo di acquisizioni metodologiche che, peraltro, sono soggette a cambiare continuamente e rapidamente.
In questo contesto l'esperienza, patrimonio primario dell'anziano, può anche sopravvivere e continuare ad essere un valore, ma solo nella proporzione in cui venga continuamente sostenuta ed arricchita dall'aggiornamento e da una adeguata riqualificazione. Una delle conseguenze dirette di questa trasformazione a livello produttivo è stata, com'è noto, l'urbanizzazione massiccia, cioè la concentrazione di molti lavoratori in aree limitate, là dove sono maggiormente raggruppate le industrie e, quindi, i posti di lavoro. Questa migrazione dalla campagna alla città, con tutti i problemi economici e lavorativi connessi, da una parte è risultata sicuramente spersonalizzante rispetto ai rapporti interindividuali ed alla tipologia della vita quotidiana, dall'altra ha contribuito ad accelerare un certo rivolgimento della atavica struttura familiare.
Già dai primi inizi della rivoluzione industriale si era andato incrinando, come è noto, l'impianto patriarcale della famiglia, tipico della civiltà contadina, basato fondamentalmente sulla ponderatezza,l'esperienza e l'autorità del patriarca, che si assumeva il compito di trasmettere il suo patrimonio di conoscenze ai discendenti (figli e nipoti), attuando, per certi versi, anche un rapporto di tipo educazionale.
Sotto l'influsso di notevoli e molteplici spinte - come quella economico-industriale - la famiglia è diventata gradualmente "nucleare", legata cioè principalmente al rapporto di coppia, frequentemente condizionata da problemi economici, di alloggio e dalla conseguente necessità per entrambi i coniugi di lavorare per far quadrare il bilancio della loro nuova comunità. All'interno di questo giovane modello familiare, la coppia anziana o il nucleo familiare anziano (che molto spesso risulta di un solo membro), non è più il perno della famiglia, come un tempo, ma solo uno dei componenti parentali che, nella più favorevole delle ipotesi, vivono come ospiti nella casa di un figlio. Tale tipo di famiglia, sempre in maggiore espansione, non è in grado di proteggere l'anziano che ne avesse bisogno e solo raramente è nella possibilità di accoglierlo quando si trovi a vivere solo ed abbisogni di assistenza.

Essendo questa tematica di carattere multi-disciplinare, tanti concetti devono necessariamente venire mutuati da discipline umanistiche. Difatti, l'osservazione dei cambiamenti sociali, avvenuti nel corso degli ultimi decenni, ci rivela come essi abbiano di molto velocizzato la scansione dei nostri tempi e quanto gli indubbi progressi tecnologici abbiano impresso alla vita quella tendenza entropica anti-ecologica che gli indiani del nord-america definiscono col termine Koyaanisqatsi. Inoltre, il crollo delle ideologie politiche ha reso possibile il sopravvento di quel pensiero, diffuso nella prassi quotidiana, che Vattimo chiama "debole". Unitamente a queste trasformazioni, gli altri punti a sfavore delle generazioni degli ultrasessantenni, sono l'inevitabile solitudine e la stessa intrinseca fragilità fisica, con la conseguente involuzione psicologica, le quali insieme rendono difficile ogni facoltà di adattamento alle novità, aggravando il sentimento di estraneità , e quel naturale misoneismo tipico dell'età avanzata.
Max Weber diceva a proposito: "Una volta gli uomini morivano sazi della vita, oggi muoiono semplicemente stanchi".
Del resto la vecchiaia dell'uomo comune è continuamente costretta su binari scelti da altri, relegata da un'idea dell'anzianità che si è generata ed incrementata negli ultimi anni.
Come ci si ingrigisce, si rendono più fragili i rapporti con una società che sotto tutti gli aspetti ha ormai etichettato l'anziano quale elemento soprannumerario.
Alla condizione "comune" di vecchio, non di "grande" vecchio, si stenta a dare una precisa collocazione, perché crea imbarazzo, se non addirittura ribrezzo.
Per essere accettati, ottenere qualche consenso o una minima cortesia, rivendicare diritti, o semplicemente non dare fastidio ed irritare, ci si deve muovere cautamente ed in modo assai accorto.
Sfiancati, o impediti, si perde quella creatività che consentirebbe di produrre idee, avere interessi e quindi di mantenersi in grado di sconfiggere la depressione.

La vecchiaia, già prima di un decadimento biologico, potrebbe riconoscersi come stile di vita esistenziale imposto dagli altri, da una società che concede uno spazio espressivo molto ridotto, oltrepassato il quale si viene giudicati o trascurati, disordinati, sciatti, "arteriosclerotici", oppure ambiziosi, vanitosi, giovanili a tutti i costi, e pertanto ridicoli.
La prossimità alla morte che la vecchiaia iconizza scatena quell'angoscia primordiale, originariamente inscritta nel nostro destino di mortali e che non trova forma migliore d'esorcismo se non quella di scaricarsi su chi maggiormente la evoca.

In quest'ambito, la depressione senile potrebbe essere definita sia come diretta conseguenza del decadimento biologico, sia come una condizione reattiva, poiché indotta dall'ambiente circostante, sia persino auto-imposta come situazione esistenziale ineludibile. L'uomo difatti è un animale culturale, consapevole di dover morire, per cui, prima di una malattia vera e propria, la depressione potrebbe essere considerata, oltre che una delle tante forme di sofferenza psichica per antonomasia, ovvero di disagio dell'anima, una condotta razionale adottata da chi anticipatamente conosce quale sarà l'esito finale in cui si coglie il senso della vita.

La società, come la religione, fuggono da questo riconoscimento volgendo il loro sguardo verso illusori ed improbabili "altrove".
Il nostro discorso esclude ovviamente le forme endogene, cicliche. E' più pertinente certo alle cosiddette "nevrosi" studiate dai seguaci di Freud. La psicoanalisi, del resto, è nata in un determinato periodo storico ed, indagando i mali sociali del suo tempo, aveva individuato l'eziologia delle nevrosi nel conflitto tra pulsioni inconsce e censure del super-io. Conflitto tra il desiderio di infrangere la norma e la norma stessa che lo inibisce, tipico dello spazio espressivo della "società della disciplina", sostenuta dalla contrapposizione permesso-proibito.
L'ordine esterno, la conformità alla legge, induce, con l'eventuale infrazione, dei sensi di colpa, cosicché il nucleo centrale delle forme depressive corrisponde al vissuto di colpevolezza.
Eppure la saggezza popolare ci ricorda che "il cuore non invecchia mai".

Ebbene, quante esigenze affettive ricevono risposta, una volta superata una certa età, consentendo quel ricambio emotivo con il mondo che è poi la prima condizione perché una qualsiasi esistenza si senta giustificata ?
Lo stesso mantenimento cognitivo è strettamente condizionato dall'accettazione emotivo-affettiva. (E vale questo per gli adolescenti che frequentano le scuole; vale ancor più per gli anziani, il cui potenziale cerebrale si deteriora non tanto per decadimento biologico, quanto per interruzione dei flussi affettivi). L'efficienza cognitiva diminuisce quindi man mano che si vanno estinguendo le risposte emotive.

In appendice, va ricordato come la sofferenza psichica, qualunque essa sia, alcuni la riconducono ad un'unica malattia mentale che trova espressioni diverse a seconda del terreno biologico, dell'ambiente sociale, della storia individuale. Pertanto, si potrebbe nutrire il sospetto che siano delle motivazioni affettivo- emotive ad incidere, più di quanto non si ritenga di primo acchito, sull' "inizio della fine" e sulla qualità stessa dell'invecchiamento.
Comunque, così come è cambiata la società, si è pure modificata la vecchiaia. Non possiamo escludere che la depressione abbia subìto un'altrettanto analoga "psico-pato-metamorfosi".
Le trasformazioni socio- culturali degli ultimi trent'anni circa hanno visto prendere piede la contrapposizione tra possibile ed impossibile, per cui la misura del rapporto tra individuo e società non è più contrassegnata dalla docilità e dall'obbedienza disciplinare, ma da iniziativa, progetto motivazione, risultati, che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé.

In uno scenario sociale dove non v'è più norma, né divieto e tutto è consentito, il nucleo depressivo degenera in un senso di insufficienza per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di portare a termine secondo le attese altrui, a partire dalle quali ciascuno misura il valore di se stesso. Perciò sintomi come la tristezza, il dolore morale, il senso di colpa hanno lasciato il posto ad ansia, insonnia, e, soprattutto, inibizione e fatica di essere se stessi.
Se prima la norma era fondata sull'esperienza della colpa e della disciplina interiore adesso la ritroviamo imperniata sulla responsabilità individuale, sulla capacità di iniziativa, di autonomia nelle decisioni e nell'azione. Il valore morale della persona viene ora riposto nella realizzazione.

La depressione si configura non più come perdita della gioia di vivere, e come sentimento di tristezza, bensì in una patologia dell'azione, in un'inibizione con perdita dell'iniziativa. La causa di ciò, che prima era originata dal conflitto, adesso è prodotta dal fallimento della responsabilità e del mancato sfruttamento di quella che sarebbe potuta essere una "opportunità". Si fa così riferimento, non tanto a ciò che è permesso, ma a ciò che è possibile. E la "domanda interiore" che ha per predicato un comportamento qualsiasi, non assume per verbo "ho il diritto di...", ma "sono in grado di... compiere una determinata azione".
Dovremmo, in base a quanto esposto, giungere alla necessità di ridefinire il medesimo concetto di depressione in quanto patologia dell'insufficienza, perché esprime il disagio di un individuo che non è sufficientemente se stesso, mai sufficientemente colmo di identità, attivo e deciso, poiché troppo titubante.
Una vita vissuta a propria insaputa è priva di senso. Eppure è questo a succedere in Occidente, dove le categorie egemoni sono quelle della funzionalità e dell'utilità. L'idea che la nostra cultura si è fatta della vecchiaia è quella di un tempo inutile. Grazie ai progressi della medicina ed ai servizi sociali più efficienti sopravvive una schiera di umanità paradossale,"paradossi" viventi, sospesi come sono in una zona crepuscolare, di cui non si capisce lo scopo, la meta finale.

A che serve allora prodigarsi nell'assistere al prolungamento di questo "limbo", di questa agonia psicologica.
La società si dà da fare per ridurre le cause dell'invecchiamento o per ritardarne, per lo meno, l'arrivo. I costi sociali, dalle pensioni all'assistenza socio- sanitaria, sovvertono il ritmo produttivo delle società più avanzate tecnologicamente, le quali si trovano adesso impreparate di fronte ad una lotta di classe (ma meglio sarebbe dire di generazioni) imprevista, differente da qualunque altra sostenuta in precedenza, come quella perpetrata dalle ideologie "forti", ormai crollate.
Gli anziani sono destinati a sentirsi esclusi in una società nella quale "si è ciò che si fa" e "se non fai niente sei una nullità". Li si taglia fuori quando non possono sperare in una qualsiasi occupazione e la perdita di identità che ne consegue equivale al totale disorientamento, alla più profonda disperazione.
Viviamo una fase storica dominata dalle ragioni del mondo economico. E ragioni contraddittorie sono quelle che vedono, da una parte, come all'anziano si offra una prospettiva di vita sempre più lunga, mentre, dall'altra, gli si tolga il senso stesso dell'esistenza, poiché per lui non c'è nulla, e nessuno lo vuole. Da qui il senso di impotenza, insufficienza, inutilità, che prende il posto dei sensi di colpa nel vissuto depressivo.
Venendo a mancare il concetto di limite, il vissuto soggettivo è dunque di inadeguatezza e di inibizione. Dalla filosofia del "tutto è possibile" scaturisce la concezione dell'oppressione sociale quale causa di follia: il "pazzo" non è malato, ma diverso e soffre per la mancata accettazione della sua diversità. Allo scenario sociale dove non c'è più norma,né divieto e "tutto è consentito" si affianca il declino dell'ideologia "antipsichiatrica" in cui il malato è oppresso ed il problema della follia viene spostato sul problema della capacità. Attualmente la preoccupazione di sbagliare viene sostituita con la preoccupazione di essere "a-normale".

L'umanità è nata con un concetto di "gruppo". Ne è controprova l'uso del "noi", nonché l'insegnamento antropologico e l'osservazione di Lévi-Strauss che l'espulsione dal gruppo equivale all'inesistenza, alla morte civile, se non a quella vera e propria.
I greci parlavano in termini di "polis", e solo col cristianesimo, e la credenza nell'anima, nasce la nozione di individualità. Per noi occidentali, che concepiamo la vita come luogo del reperimento del senso, è tragico confrontarci con l'età della tecnica che annulla ogni visione del mondo.
Ci viene imposto di garantire una prestazione perché alla tecnica interessa che ci siano degli esecutori efficienti di azioni già codificate. Non interessano le loro identità e tanto meno la loro creatività, perché ciò che conta soprattutto è la sostituibilità degli operatori.
Quando ci confrontiamo con gli altri non lo facciamo in quanto noi stessi, ma in quanto svolgiamo una certa funzione e parliamo con forme linguistiche formalizzate ed ordinate alle prestazioni.
In quanto prestatori di funzioni, non siamo mai realmente chiamati in causa, non è in gioco la nostra soggettività. Le nostre identità ne risultano compresse. Prima ancora di cominciare ad ascoltare sentiamo la necessità di affermarci come "Io". L'altro tende a non esistere, è solo uno spettatore, ma anche la conferma dell'esistenza nostra.
La relazione che si stabilisce è così asimmetrica. Siccome nel pubblico siamo funzionali, nel privato l'identità si esprime in forme parossistiche. Un "io" sano avrebbe bisogno della mediazione sociale, delle diluizioni dello scambio interpersonale, perché l'identità si costruisce attraverso il riconoscimento esterno. Ma il sociale attuale ci riconosce soltanto in termini di efficienza, di carriera, di successo.

Una società narcisistica, qual è la nostra, stimola comportamenti perversi. L'attuale civilizzazione, con la sua intensificazione dei ritmi, la crescita della concorrenza, i metodi di management, fatto apposta per stimolare l'individualismo e la visibilità, esaspera la parte perversa narcisistica che tende ad annientare ogni reciprocità e simmetria, preferendo l'apparenza, intollerante verso la debolezza. Conta mostrarsi, brillare, essere in forma, ai vertici. Quelli che non ce la fanno, che arrancano di fronte ad un mondo che imperativamente sostiene che bisogna riuscire in tutto, non possono che essere depressi.
Volendo estremizzare, potremmo arrivare a scoprire, grazie ai condizionamenti esterni della società, quale massa abbiamo generato di psicopatici, narcisisti. Perversi,"anaffettivi", e pertanto immuni dalla depressione, i quali proiettano sull'altro tutta la sofferenza che non si vuol provare, fanno soffrire per non soffrire a loro volta, esistono soltanto demolendo l'altro, ed esercitano una sorda violenza (asimmetrica), imponendo la propria autorità e paralizzando la volontà del più debole.
L'altro tipo psicologico caratteriale che si va così delineando, riguarda, dalla parte opposta, nonni e genitori depressi, vittime delle nuove popolazioni di anaffettivi, con tutta la complicazione che deriva dal rapporto conflittuale tra generazioni, e, soprattutto, tenendo conto che i figli costituiscono pur sempre il prolungamento narcisistico per eccellenza.
Il rimedio, a questo punto, se mette a tacere il sintomo, induce un superamento, con una risposta alle esigenze efficientistiche ed afinalistiche. Il rischio che si corre è di impersonalizzazione, inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale, omogeneizzazione delle norme di socializzazione. La cura dovrebbe invece mirare a rendere capaci di essere se stessi, di riflettere sulle contraddizioni, sulle ferite esistenziali, sulla fatica di vivere.

Memore del pensiero di Montagne : "A misura che il possesso della vita è più breve, tanto più profondo e pieno voglio renderlo", James Hillman dice che il fine di invecchiare è quello di svelare il nostro carattere, che ha bisogno di una lunga gestazione per apparire in tutta la sua peculiarità. Ma questa non sarebbe un'idea del tutto nuova. Socrate stesso, nel dialogo con Cefalo, il quale descrive la vecchiaia come causa di tutti i mali, ribatte che, al contrario, la causa non è la vecchiaia, tutt'al più il carattere dell'individuo.
Hillman propone allora di curare non gli individui, ma le idee malate con cui gli individui visualizzano se stessi e le fasi della loro vita. Questo però è un lavoro che forse potrebbe far meglio la filosofia, in quanto correttivo di idee stantie, divenute egemoni per forza d'abitudine, per pratica, condivisione o semplicemente solo per pigrizia.
L'esigenza di sincerità, la richiesta di risposte sulle quali poggia la coesione sociale si potrebbe reperire nelle ragioni di una "pietas" che sappia distinguere quanto dell'afflizione della vecchiaia venga incrementato dall'idea stessa che ci siamo fatta di essa, una "pietas" che riconosca come tante idee convenzionali, tanti luoghi comuni devono essere cambiati, semplicemente proprio perché "produrre idee" è già di per sé, una sufficiente giustificazione del vivere.